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FESTIVAL DI CANNES 2013 (1)
  Stampa questa scheda Data della recensione: 20 maggio 2013
 
Luhrmann, Escalante (2013)
 
CANNES 2013: ALL'INIZIO MANCA IL BOTTO MA LA SENSAZIONE E' DOVE NON L'ASPETTI

Cannes come non te l'aspetti, e non solo per gli acquazzoni che sconquassano la Croisette. Ci eravamo messi ormai tutti d'accordo nel condividere l'opinione degli (ex) cani sciolti dei Cahiers du Cinéma: la più blasonata delle assemblee cinematografiche mondiali rifiuta da tempo di aprirsi alle nuove leve, a profitto degli abituali e ormai stagionati ex bambini prodigio. E tutti a citare Soderbergh, che ha avuto la Palma a 27 anni ma&nel 1990, due volte i fratelli Coen, a 33 e 36 anni, ma nell'ormai remoto 1991; e James Gray, forse il più grande dell'ultima generazione, snobbato già 13 anni fa (e pure lui, a 31 anni) per lo splendido The Yards. Sarà l'età del direttore Thierry Frémaux, ma l'abbondante selezione francese è in maggioranza composta da suoi coetanei ultracinquantenni: Arnaud Desplechin (già in Competizione nel lontano 1992), Abdellatif Kechiche e Arnaud des Pallières. E l'anagrafe di altri eletti di quest'anno rappresenta una sorta di colpo di grazia: Miike è nato nel 1960, Kore-Eda nel 62, Payne nel 61, Valeria Bruni Tedeschi nel 64. In quanto al maestro fra i presenti, Roman Polanski, di anni ne ha 79. A rassicurarci non rimane che il confronto con l'edizione precedente, Resnais 89 anni, Kiarostami 73, Haneke 71, Cronenberg 70&

Poiché si può dire tutto e il contrario di tutto, affrettiamoci a riconoscere che l'inizio del festival 2013 sembra essere stato disegnato per smentire quanto sopra. Il tanto celebrato e invidiato Il Grande Gatsby da solito centinaio di milioni è in effetti piccolo: mentre a uscirne ingigantito è stato l'inatteso filmetto da quattro soldi ma cento mazzate, HELI, del messicano Amat Escalante. Che di anni, guarda caso, ne ha trentaquattro.

I casi erano due, o Baz Luhrmann era ritornato quello di ROMEO E GIULIETTA (1996) e MOULIN ROUGE (2000), oppure era ormai quello di AUSTRALIA (2008). In altre parole: la stravaganza, la dismisura quasi sfrontata nell'uso delle immagini, della manipolazione musicale del regista australiano era ancora in grado di trasformare le sue stravaganti invenzioni in energia e generosità, le sue storie di amore e morte in gioia di vivere? Accadeva nel primo: scatenato, post-moderno divertimento sopra le righe, uno Shakespeare strapazzato sotto palmizi iperrealisti come un videoclip alla moda in ambiente fantasy. E, più ancora, nel secondo; dove, condotto alle stelle da una sublime Nicole Kidman fatale come Hayworth e Bacall ma fragile come Marylin, l'allievo di Peter Brook dalle ossa forgiate nel melodramma operistico dava libero sfogo alle sue voglie di delirio kitsch. Più che un musical, Moulin Rouge era una macedonia musicale referenziale che arditamente giocava sull'anacronismo, la dissacrazione cara alla cultura pop, mischiando nel karaoke Puccini e Paul McCartney, Nirvana, Sting e Placido Domingo, Offenbach al Roxane dei Police, diventato un tango da contrapporre al dilagante Marmalade.

Ahimè, IL GRANDE GATSBY è fatto ormai dai cascami di tanta goduria. Forse è l'epoca ad essere trascorsa ma dell'eloquente grandiloquenza non è rimasta che una professionale supponenza. E del capolavoro di Francis Scott Fitzgerald, un affresco delle trasgressioni vagamente orgiastiche dei cosiddetti Anni Ruggenti, superspeedato dal montaggio, emasculato dall'apparente meticolosità del mix sempre più micidiale fra alta definizione e effetti digitali.

Prima di abbordare in una seconda parte più umilmente romanzata la drammatizzazione della storia d'amore fra Gatsby (un Leonardo DiCaprio che stringe i denti pensando ad altro) e la sua Daisy (Carey Mulligan, biondina esangue asciugata dalle energie da fidanzata di Gosling in Drive) Baz Luhrmann sembra disinteressarsi da ogni sottofondo psicologico e epocale che ha fatto del romanzo uno dei libri di culto sul Sogno Americano. Certo, il narratore- scrittore Nick Carraway (uno spento, monomimico Tobey Maguire) si ritrova ad osservare gli strabordanti festeggiamenti della privilegiata upperclass del suo mitico vicino a Long Island. Ma prima che ne tragga le dovute conclusioni (assieme allo sfortunato e innamorato arrivista), gli autori sembrano eternizzarsi ad illustrare coorti risapute di ballerine (nemmeno tanto brave) dimenarsi convinte di trasmettere irresistibili eccitazioni prima di finire nell'inevitabile piscina. Mentre allo spettatore non rimane che dedicarsi alle origini della valanga di cotillons e stelle filanti che precipita per l'ennesima volta dall'alto, l'ex mago del kitsch musicale non trova di meglio che riesumare il più prevedibile dei Gershwin, doppiare i buoni negroni che mimano il jazz d'epoca prima di sfociare, ma in sordina, nell'unica mini provocazione Amy Winehouse.

Sorprende allora l'accostamento alla flagrante operazione da tappeto rosso del piccolo, brutale HELI del messicano Amat Escalante. Non che la violenza infernale della storia di Estela, la ragazzina che s'innamora del giovane poliziotto che condurrà l'intera famiglia in una spirale disperata per aver rubato pacchetti di coca ai&suoi superiori, si giustifichi appieno. Qualche situazione nascerà da un sospetto di compiacimento, ma la denuncia di corruzione e sopraffazione che ne risulta è impressionante. Rapimenti e torture in tempo reale fanno pensare alle Filippine di Brillante Mendoza. Ma l'efficacia della padronanza formale del giovane cineasta, la sua capacità di isolare il destino dei protagonisti in uno spazio sospeso nel tempo, la volontà di sviscerare rabbiosamente la deriva sociale e morale del proprio paese, di accostarsi anche con spiragli di tenerezza allo scoramento dei cittadini confrontati all'impotenza dello Stato lascia comprendere che da tanta miseria è nata una stella.

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