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Autore, in mirabile successione, di tre polizieschi conseguenti e durissimi (LITTLE ODESSA, THE YARDS e WE OWN THE NIGHT), al cineasta americano dal modernismo più limpido era già riuscita una eclatante e proficua rottura di tono: in TWO LOVERS (2008) aveva voltato le spalle a ogni violenza esplicita e spettacolare. Sangue, mafie, scambi di armi da fuoco avevano lasciate il posto a problematiche tutte rivolte all'interno dei personaggi, in una clima inatteso di commedia romantica alla Cary Grant e James Stewart. " Come decidermi ad accompagnarmi a questa, piuttosto che a quest'altra " - s'interrogava lo strampalato Joaquim Phoenix - "poiché è impossibile conoscere veramente a fondo una persona, la complessità umana essendo infinita". La fatalità dei sentimenti. Con uno di quei colpi di genio che covano sotto il classicismo del suo cinema, cinque anni dopo quel film dalle situazioni insolitamente esilaranti, James Gray ci mette di fronte al medesimo gioco di prestigio che sembra riuscirgli a meraviglia: riprendere i suoi temi, le sue angosce e le proprie intuizioni espressive, ma cambiando completamente di tono, e di genere. Nella sua iniziale lentezza, THE IMMIGRANT sorprenderà chi si era giustamente esaltato alla deflagrazione d'adrenalina del suo magnifico esordio in LITTLE ODESSA: qui, le carrellate accorate sono tutte per gli immigranti che sbarcano a Ellis Island nel 1921, distrutti, incanalati per gli esami sanitari, gli atteggiamenti smarriti. E le prime inquadrature strette sono sul viso emaciato di quella che sarà l'eroina del film, Marion Cotillard. Sembra Lilian Gish, l'eroina di Griffith. Con lei, il film del focoso James Gray si avvia quasi muto, lento, doloroso. Un melodramma, con l'eroina che ha una sorella sequestrata in quarantena per via della tubercolosi; per liberarla, per corrompere i guardiani ci vogliono soldi, e come ottenerli nell'indifferenza generale, se non affidandosi all'imponderabile protezione di due cugini che gestiscono un teatrino di strip e magia? I cugini, la famiglia: eccola affiorare da tanta contenuta emozione, ai confini delle lacrime e dei timidi sorrisi, la natura che fatto grande il cineasta: i nodi del nucleo familiare, l'ambiguità degli affetti al suo interno. Ma Caino e Abele; ma con le loro contraddizioni, la fedeltà e il tradimento. In un'incantata luce ambrata, in un'onda melanconica e minacciosa che assume progressivamente il respiro implacabile della tragedia greca, la vibrazione del melodramma e delle sue emozioni minime cresce così all'interno del film. Il regista le contiene ambedue in uno spazio ristretto, che finisce per alimentare a dismisura la loro forza: mentre gli spazi, i colori, i suoni, le musiche concorrono a creare la cornice di un dilemma che assume il peso e la commozione di contrasti eterni. Di interrogativi che ci accompagnano per tutta una vita.

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The author, in admirable succession, of three consequential and hard-hitting crime films (LITTLE ODESSA, THE YARDS and WE OWN THE NIGHT), the American filmmaker with the most limpid modernism had already succeeded in a striking and profitable break in tone: in TWO LOVERS (2008) he had turned his back on all explicit and spectacular violence. Bloodshed, mafias, and gun exchanges had given way to issues all turned inward, in an unexpected climate of romantic comedy à la Cary Grant and James Stewart. "How do I decide to go with this one rather than this one", wondered the oddball Joaquim Phoenix, "because it is impossible to really know a person in depth, human complexity being infinite". The fatality of feelings. With one of those strokes of genius that lurk under the classicism of his cinema, five years after that film with its unusually hilarious situations, James Gray confronts us with the same sleight of hand that seems to have worked so well for him: taking up his themes, his anxieties and his expressive intuitions, but completely changing tone, and genre. In its initial slowness, THE IMMIGRANT will surprise those who had justifiably rejoiced at the adrenalin explosion of his magnificent debut in LITTLE ODESSA: here, the heartfelt tracking shots are all for the immigrants landing at Ellis Island in 1921, broken, channelled for health examinations, their attitudes lost. And the first tight shots are of the emaciated face of what will be the film's heroine, Marion Cotillard. She looks like Lilian Gish, Griffith's heroine. With her, the fiery James Gray's film starts off almost mute, slow, painful. A melodrama, with the heroine who has a sister sequestered in quarantine because of tuberculosis; to free her, it takes money to bribe the guardians, and how to get it in the general indifference, if not by relying on the imponderable protection of two cousins who run a strip and magic theatre? The cousins, the family: here it emerges from so much restrained emotion, at the edge of tears and shy smiles, the nature that made the filmmaker great: the knots of the family unit, the ambiguity of the affections within it. But Cain and Abel; but with their contradictions, loyalty and betrayal. In an enchanted amber light, in a melancholic and threatening wave that gradually takes on the implacable breath of Greek tragedy, the vibration of melodrama and its minimal emotions thus grows within the film. The director contains them both in a confined space, which ends up disproportionately fuelling their strength: while the spaces, colours, sounds and music combine to create the framework of a dilemma that takes on the weight and emotion of eternal contrasts. Of questions that accompany us for a lifetime.

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