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12 ANNI SCHIAVO
(12 YEARS A SLAVE)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 10 marzo 2014
 
di Steve McQueen, con Chiwetel Ejiofor, Michael Fassbender, Benedict Cumberbatch, Paul Dano, Paul Giamatti, Lupita Nyong'o, Brad Pitt (Stati Uniti, 2013)
 

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Oscar per il Miglior Film a suggello di una premiazione insolitamente coerente (Regia a GRAVITY di Cuaron, Interpretazioni per Matthew McConaughey di DALLAS BUYERS CLUB e Cate Blanchett in BLUE JASMINE di Woody Allen, Sceneggiatura a HER di Spike Jones, ecc.) 12 ANNI SCHIAVO conferma l'importanza di un artista ai vertici delle arti plastiche contemporanee divenuto una delle personalità più marcanti di un cinema ormai non più “soltanto” sperimentale.

Forse a riflesso di uno storico complesso di colpa collettiva il cinema americano si è da sempre occupato poco di schiavismo. Ora, a partire dalla cronaca autobiografica di un certo Solomon Northup apparsa a metà del diciannovesimo secolo, Steve McQueen firma il primo film di un nero sul soggetto. Seguendo un procedimento drammaturgico inabituale quanto proficuo ai fini dell'identificazione da parte dello spettatore, mostra quanto possa essere fulmineo il passaggio dalla libertà alla schiavitù. Un meticcio, libero poiché figlio di un padre liberato e di madre bianca, padre felice di una famiglia borghese nel Nord degli Stati Uniti, che viene rapito e venduto come schiavo in uno degli stati del Sud che ancora non riconoscevano l'emendamento abolizionista di Abraham Lincoln, imposto poi con la Guerra di Secessione. Una spirale disperata, dalla quale non si estirperà che otto anni dopo, grazie alla propria cultura, al proprio accanimento nel “volere vivere, non sopravvivere”.

All'interno di questa epopea che avrebbe potuto essere soltanto grandiloquente, melodrammatica o kitsch, pur avviando una riflessione profonda sulle contraddizioni della natura umana, sugli estremi inimmaginabili dell'ingiustizia, le frammistioni con l'ipocrisia religiosa, la cupidità alleata della legge, al film riesce una transizione mirabile dal cinema d'autore con la sua creatività al potere di diffusione di quello popolare. Alcuni rimproverano a McQueen di aver annacquato il rigore del proprio sguardo cinematografico in nome della consensualità di quello classico; edulcorato la spirale progressiva in quei gironi allucinanti nella luce e i suoni di una Louisiana lussureggiante. Ma se vi è bellezza, essa serve al regista quale contrasto alla brutalità dell'infamia: contrariamente ad altri film del passato (SLAVES di Biberman, MANDINGO di Fleischer fino a Spielberg e Tarantino) 12 YEARS A SLAVE ha il pregio di analizzare l'indecenza della piaga in tutti i suoi aspetti. La disumanizzazione progressiva degli schiavi, ma pure le contraddizioni e le fragilità degli schiavisti (rivelate nella finezza interpretativa di Michael Fassbender, sadico ma autopunitivo nell'annientamento della propria vena amorosa), autori di una inimmaginabile sopraffazione che finisce però per minare, introducendovi terrore e ingiustizia, il cuore stesso dello Stato sudista. Il cinismo della perversione nasce in una Washington già sontuosa (la panoramica sui suoi tetti dopo l'inganno, tra le più significative del film) per proseguire nell'ipocrisia dei sermoni biblici dei padroni, le gerarchie di casta fra schiavi e servitori, le loro mortali sottomissioni sessuali, le sadiche frustrazioni vendicative delle mogli tradite, ecc.

Al suo terzo capitolo, McQueen affina la propria poetica cosi vicina al corpo e alle sue torture: quelle fisiche, indicibilmente mortificate di Bobby Sands, il resistente irlandese dell'IRA imprigionato a morte in HUNGER, e quelle psichiche, interiorizzate, l'insoddisfazione sessuale dello splendido yuppie nuovaiorchese, sempre interpretato da Fassbender di SHAME sfociano ora nelle frustate sempre più invasive di 12 ANNI SCHIAVO. Dove l'accanimento compulsivo, estenuante sui corpi forza alla condivisione lo spettatore, acquistando sempre più una dimensione mentale; mentre l'uso dei piani fissi, dei tempi immobili terribilmente dilatati ci trasportano in una dimensione seconda, paradossalmente immateriale e quindi morale.

Cosi, nella sequenza indimenticabile dell'impiccato che, per sopravvivere, deve mantenersi con la punta dei piedi sul fango, l'occhio dello spettatore non è tanto attirato dall'atroce meccanica: ma da quanto accade nell'idilliaco controluce sullo sfondo, con la vita che ricomincia noncurante, l'impotenza, la rassegnazione confinano con l'indifferenza, i bimbi si rincorrono, gli schiavi incrociano eleganti dame anche di colore.

E' tutta la complessità di una condizione, l'elaborazione di una memoria rifiutata: inserendo l'intransigenza del proprio sguardo all'interno di una cornice più accessibile Steve McQueen rende allora possibile quella divulgazione popolare che una parte dell'arte cinematografica da sempre ambiziona.

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10/03/2014

Oscar for Best Film to seal an unusually coherent award ceremony (Director to Cuaron's GRAVITY, Performances for Matthew McConaughey in DALLAS BUYERS CLUB and Cate Blanchett in Woody Allen's BLUE JASMINE, Screenplay to Spike Jones' HER, etc.). 12 ANNI SCHIAVO confirms the importance of an artist at the top of the contemporary plastic arts who has become one of the most striking personalities in a cinema that is no longer just experimental.

Perhaps as a reflection of a historical collective guilt complex, American cinema has always dealt little with slavery. Now, based on the autobiographical account of a certain Solomon Northup, which appeared in the mid-19th century, Steve McQueen has made the first film by a black man on the subject. Following a dramaturgical procedure that is as unusual as it is profitable for the spectator's identification, he shows how rapid the passage from freedom to slavery can be. A half-breed, free because he is the son of a freed father and a white mother, the happy father of a bourgeois family in the North of the United States, who is kidnapped and sold as a slave in one of the Southern states that did not yet recognise Abraham Lincoln's abolitionist amendment, later imposed with the War of Secession. A desperate spiral, from which he will only emerge eight years later, thanks to his own culture, to his obstinacy in wanting to live, not survive.

Within this epic that could only have been grandiloquent, melodramatic or kitsch, while initiating a profound reflection on the contradictions of human nature, on the unimaginable extremes of injustice, the intermingling with religious hypocrisy, the greed allied to the law, the film succeeds in an admirable transition from the cinema of the auteur with its creativity to the power of diffusion of popular cinema. Some reproach McQueen with having watered down the rigour of his own cinematic gaze in the name of the consensuality of the classic one; he has sweetened the progressive spiral in those hallucinatory circles in the light and sounds of a luxuriant Louisiana. But if there is beauty, it serves the director as a contrast to the brutality of infamy: unlike other films of the past (Biberman's SLAVES, Fleischer's MANDINGO through to Spielberg and Tarantino) 12 YEARS A SLAVE has the merit of analysing the indecency of the scourge in all its aspects. The progressive dehumanisation of the slaves, but also the contradictions and fragility of the slavers (revealed in the subtle interpretation of Michael Fassbender, sadistic but self-punishing in the annihilation of his own love vein), authors of an unimaginable oppression that ends up undermining the very heart of the Southern state by introducing terror and injustice. The cynicism of perversion begins in an already sumptuous Washington (the panoramic view of its rooftops after the deception, one of the most significant in the film) and continues in the hypocrisy of the biblical sermons of the masters, the caste hierarchies between slaves and servants, their deadly sexual submission, the sadistic vengeful frustrations of betrayed wives, etc.

In his third chapter, McQueen refines his poetics so close to the body and its tortures: the physical, unspeakably mortified ones of Bobby Sands, the Irish IRA resister imprisoned to death in HUNGER, and the psychic, internalised, sexual dissatisfaction of the splendid New York yuppie, again played by Fassbender in SHAME, now lead to the increasingly invasive whippings of 12 YEARS A SLAVE. Where the compulsive, exhausting overkill on the bodies forces the spectator to share, acquiring more and more a mental dimension; while the use of fixed planes, of terribly dilated motionless times transport us into a second dimension, paradoxically immaterial and therefore moral.

Thus, in the unforgettable sequence of the hanged man who, in order to survive, has to keep his toes in the mud, the spectator's eye is not so much drawn to the atrocious mechanics as to what happens in the idyllic backlighting in the background, with life resuming unconcernedly, impotence and resignation bordering on indifference, children chasing each other, slaves meeting elegant ladies, even black ones.

It is all the complexity of a condition, the elaboration of a rejected memory: by inserting the intransigence of his own gaze within a more accessible framework Steve McQueen thus makes possible that popular divulgation that has always been a part of cinematographic art.

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