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CESARE DEVE MORIRE Film con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggio
  Stampa questa scheda Data della recensione: 9 maggio 2013
 
di Paolo e Vittorio Taviani, con Cosimo Rega, Salvatore Striano, Giovanni Arcuri, Antonio Frasca (Italia, 2012)
 

Shakespeare in tutto il suo splendore, gesta, suoni, colori esaltati in primo piano, Bruto che volge il proprio sguardo angosciato in direzione dei compagni perché uno di loro lo aiuti a morire. Infine, sul suo corpo esanime si protrae un braccio per risollevarlo, quello del redivivo Giulio Cesare, circondato da tutti gli altri attori. La rappresentazione è finita, il pubblico applaude entusiasta, gli attori si abbracciano con un fervore forse inusitato. Il perché del nostro leggero disagio lo comprendiamo dalla sequenza che segue: gli attori escono di scena, ma accompagnati dalle guardie carcerarie, fino alle loro celle, che si rinchiudono su di loro, uno dopo l'altro. Siamo a Rebibbia, la prigione di alta sicurezza che ospita gli attori: spesso a perpetuità, molti per omicidio o criminalità mafiosa.


A ottantanni, cinque dopo il precedente LA MASSERIA DELLE ALLODOLE, i due fratelli autori di opere splendide tra gli anni 70 e 80 come PADRE PADRONE, KAOS o LA NOTTE DI SAN LORENZO evidenziano, oltre al loro immutato impegno civile, un sorprendente coraggio. Che non consiste di certo in un abbandono della loro leggendaria disciplina estetica: piuttosto, della rinuncia a una eleganza distaccata che, perlomeno nelle opere minori, portava le seduzioni della scrittura ad avere il sopravvento sull'emozione. In CESARE DEVE MORIRE (Orso d'Oro a Berlino 2012) accade l'opposto: filmando il teatro che entra nella prigione, proponendo il tema non inedito della finzione e della fantasia che hanno la meglio sulle sbarre, i due registi seguono solo in apparenza la strada del documentario. Giocano costantemente, al contrario, sul filo sottile, seducente, ambiguo, anche pericoloso che separa la riproduzione della realtà dall'invenzione fittiva. E il fascino del film, giustamente compatto nei suoi 76 minuti, nasce proprio da quella rimessa in questione che nasce progressivamente davanti al nostro sguardo mentre impercettibilmente il Cinema si sostituisce al Teatro. Sia pure quello sommo di Shakespeare.


Già nel corso dei provini ai quali i prigionieri sono sottoposti le emozioni che vengono loro dettate ( commozione, collera) sono inizialmente prese in prestito da un testo immortale: a tratti, più o meno inconsciamente, si fanno però esaltate dai drammi personali. E' un processo di simbiosi espressiva che si fa psicologica, mentre l'urgenza del dire si fa insopprimibile nei personaggi ormai non più soltanto attori: e che i Taviani filmano in un bianco e nero illuminato quasi ferocemente, esplorando i visi solo in apparenza impietosamente; in effetti con un'umanità crescente, lontani dal distacco del documentario, da ogni tipo di compiacimento.


Ritornerà il colore, e assieme a questo la rappresentazione, soltanto nel finale, quando si ripeteranno le scene dello spettacolo pubblico. Cesare, Cassio, Bruto sono gli stessi che abbiamo osservato all'inizio; ma è lo spettatore a vederli ormai in modo diverso.


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