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ARGERICH - BLOODY DAUGHTER Film con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggio
  Stampa questa scheda Data della recensione: 17 giugno 2013
 
di Stéphanie Argerich con Stephen Kovacevich, Martha Argerich (Svizzera - Francia, 2012)
 
Grazie al cinema, al suo potere d'interrogare le immagini e di risalire nel tempo, al cineasta è stato spesso permesso d'interrogarsi sulla propria formazione, sul processo così delicato della filiazione, del rapporto con i genitori. Per cammini diversi: dall'immersione nella sublime crudeltà dell' Ingmar Bergman di SINFONIA D'AUTUNNO, al rincorrere la vertigine della provocazione del Pedro Almodovar di TUTTO SU MIA MADRE, alla fragilità fremente nel mettersi a nudo dell'Alina Marazzi di UN'ORA SOLA TI VORREI.

Stéphanie Argerich, che si racconta in prima persona in questo suo primo, delizioso lungometraggio non può che avventurarsi per itinerari ancora diversi. La mamma, Martha Argerich, non essendo soltanto la pianista considerata da molti come la più grande al mondo, dopo la scomparsa degli Horowitz, Rubinstein, Richter o Benedetti Michelangeli. Ma una personalità dall'identità del tutto particolare, unica e libera, forte e forse fragile, sempre comunque sottilmente inafferrabile. Interrogazione dolce amara, magistralmente disincantata e divertente, ambientata fra tanta madre e due sorelle (una delle quali, Lyda, "dimenticata " per una decina d'anni...) ARGERICH - BLOODY DAUGHTER è allora forzatamente un film di donne, tutto costruito su un rapporto di matriarcato. Anche se l'altro grande pianista presente, Stephen Kovacevich, il padre della regista, pure lui "dimentico" d'iscrivere la figlia al momento della nascita ("A che servono i pezzi di carta; d'altronde non avevamo fatto a testa e croce se Stéphanie dovesse prendere il nome del padre o della madre?"), partecipa più che utilmente, con la sua affettuosa leggerezza, come contraltare alla complessa alchimia famigliare del film.

Mosaico paradossale, interno di famiglia disperso nello spazio, nel tempo, nell'infinità degli incroci sentimentali e affettivi, dei condizionamenti psicologici; ella poetica follia dell'essere artista. La trentaquattrenne Stéphanie ne esce non senza le lacrime; ma con una maturità e una grazia tutta sua, che le permette di evitare gli scogli tradizionali di questo genere di operazioni, l'agiografia, l'esibizionismo, il narcisismo. Ricorre, come spesso in questi casi, a foto e filmini di famiglia, oltre che a molto materiale girato da lei stessa: ma con sceneggiatura che viene a capo di tanta geniale anarchia con poche lacune, dei produttori che si riconducono a Lynch, Godard o Sokurov, un montatore esperto come lo svizzero Vincent Pluss.

Soprattutto, traduce cinematograficamente tutta la tenerezza della propria ansia di fusione in un intimismo splendidamente concluso; privilegiando i primissimi piani, avvicinandosi con una commozione a fior di pelle alla madre ripresa negli attimi del risveglio, mentre si apre scontrosa al nuovo giorno, ma si concede al sentimento materno con una disponibilità non ancora vulnerabile. Sequenze istintive, squisitamente cinematografiche, come quelle finali, con la madre e le tre figlie che si ritrovano riunite nella trasparenza di un dejeuner sur l'herbe alla Renoir a distendersi fra i prati. Nella delicata incertezza di un rapporto madre-figlia sempre rimesso in questione, nella scelta surreale di quale tinta risulti la più appropriata per l'alluce della grande, inavvicinabile signora, c'è allora tutta l'intelligenza e la poesia di un sofferto nodo personale che si è ormai fatto momento di felicità artistica.


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