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FESTIVAL DI LOCARNO 2012 - CONCLUSIONI
  Stampa questa scheda Data della recensione: 20 luglio 2012
 
Soderbergh, Brisseau, Bob Biyington, Ying Liang, Lucien Castaing-Taylor e Verena Paravel, Tizza Covi e Rainer Frimmel, Pablo Larrain, Noémie Lvovsky Stéphane Brizé, Gonzalez-Rubio (2012)
 
LOCARNO, FRA ENTUSIASMI ESTIVI E IL DOVERE DI GUARDARSI ALLO SPECCHIO

" L'impressione di trovarmi ai piedi di un muro. Dopo avere realizzato 26 film ho fatto il giro del problema, eseguito tutto quanto dovevo fare: dopo Sesso, bugie e videotape nel 1989 mi sono confrontato con ogni genere di cinema, da quello destinato al grande pubblico a dei progetti molto personali. Ora è tempo di qualcosa d'altro; ciò che m'importa è ogni giorno creare, inventare. Tornerò forse al cinema, ma in modo diverso. Ricominciando da zero, trovando nuovi modi di narrare: il linguaggio del cinema non è mutato da anni, è giunto ormai il momento del reset". "

Ad esprimersi con tanta decisione (in un'intervista a Le Nouvel Observateur) è Steven Soderbergh, uno dei più noti cineasti contemporanei, probabilmente il più storicamente blasonato fra quelli presenti quest'anno al Festival di Locarno; con quello che potrebbe a questo punto essere il suo ultimo film, il MAGIK MIKE passato in Piazza. Dichiarazioni illuminanti, poiché riguardano anche risvolti che Locarno, come e forse più di altri festival cinematografici, sarà presto o tardi costretto ad affrontare. Se intende conservare quello statuto d'incontro dal richiamo mondiale che, nei suoi alti e bassi, lo ha tenuto in vita nella sua invidiabile, per certi aspetti inimitabile parabola iniziata nel lontano 1946.

Di come il festival possa confrontarsi con lo smarrimento creativo che è del primo vincitore di una Palma d'Oro a Cannes con un piccolo film d'autore diremo in seguito. Prima, affrontiamo cose più semplici e concrete. Anche se parlare di Locarno non è facile, senza correre il rischio di essere fraintesi: perché il nostro festival vive di varie ottiche, di anime spesso contraddittorie, delle quali la più visibile è quella locale, cantonale e anche nazionale. Quella che ha fatto dire al suo generoso Presidente che Locarno scoppia di salute, la Locarno dell'incontro, della festa, dell'appuntamento estivo.

Che lo si voglia o meno, tutto gira comunque attorno ad un'idea di Cinema: della quale ora non importa tanto disquisire: se il Pardo d'Oro sia stato giustamente assegnato ad un film piuttosto che a un altro. Premio certo sorprendente non fosse che per ragioni d'anagrafe, Jean-Claude Brisseau essendo un vincitore quasi settantenne di un Concorso in teoria destinato a dei quasi esordienti. Ma senza dimenticare che LA FILLE DE NULLE PART è un'opera produttivamente discreta e modesta, girata a domicilio e interpretata dal regista stesso. Una sorta di kammerspiel, che non deve essere dispiaciuto al presidente della Giuria Apichatpong Weerasethakul perché come nei film del thailandese racconta di fantasmi che s'incarnano ai confini della morte, della vita, del desiderio. E senza dimenticare nemmeno che questa storia di un professore in pensione che si ritrova una giovane insanguinata sulla soglia di casa viene a completare la filmografia di un cineasta dalle vicissitudini anche private perlomeno agitate: ma capace di creare (si pensi a DE BRUIT ET DE FUREUR, NOCE BLANCHE o CELINE) universi estetici magistrali per come sfociavano dal realismo attento e quasi banale al delirio fantastico, dal mondo della conoscenza a quello del misticismo.

L'argento è andato a una commediola che diverte per dieci minuti come SOMEBODY UP THERE LIKES ME di Bob Biyington mentre i premi per la Regia e l'Interpretazione femminile hanno al contrario sottolineato il potente impatto politico e strutturale del coreano/cinese WHEN NIGHT FALLS di Ying Liang. Ha poi fatto specie la scarsa considerazione della quale ha goduto il film forse più originale e visionario fra quelli visti quest'anno, LEVIATHAN di Lucien Castaing-Taylor e Verena Paravel, che trasforma un interessante documentario sulla fatica di chi lavora sui pescherecci in un furioso, splendido poema del mare. Da notare infine l'insufficiente presa in considerazione della pellicola più umanista, e per molti versi compiuta, l'austriaca DER GLANZ DES TAGES di Tizza Covi e Rainer Frimmel: nella quale due straordinari attori, Walter Saabel e Philipp Hochmair interpretano il rapporto curioso e poetico fra un vecchio domatore d'orsi e il nipote, celebre attore di teatro che nel film incarna sé stesso.

Cosa dire, allora, del cinema proposto da Locarno, una volta confermato quanto già detto nei numeri precedenti: fatto di ogni erba un fascio fra Piazza, Concorso, Cineasti del presente la qualità media del prodotto è in generale migliorata. Nel senso che sembrano essere (quasi) un ricordo del passato certe cadute che obbligavano a chiedersi cosa avessero a che fare con una mostra di cinema d'autore.

Qualità media più che dignitosa, ma quanti i titoli che arrischiano di restare nelle memorie? Forse i due provenienti da Cannes, NO del cileno Pablo Larrain e CAMILLE REDOUBLE della francese Noémie Lvovsky, certamente QUELQUES HEURES DE PRINTEMPS di Stéphane Brizé che Olivier Père è riuscito a portare, in prima mondiale, sul suo schermo e qualche piccolo della competizione. Certo, qualche scoperta fra i Cineasti del presente, primo fra tutti il giustamente premiato INORI girato in Giappone dal portoghese Gonzalez-Rubio. Un anno fa la Piazza aveva proposto due dei grandi film dell'anno, LE HAVRE di Kaurismaki e DRIVE di Winding Refn; ma è normale che la volonterosa, entusiastica, spesso neofita marea che invade per undici giorni un festival che si vuole d'irradiazione internazionale debba ignorare, almeno per informazione, non certo in prima mondiale, quanto di meglio è capace di offrire il cinema? Normale che a Locarno si perda regolarmente la traccia dei vari Dardenne, Leigh, Polanski, Cronenberg, Burton, Ceylan, Coen, Haneke, Bellocchio, Audiard, Allen, Eastwood, Fincher, Moretti, von Trier, Haynes, Farhadi, Payne, McQueen, Malick, Tsui Hark, Kore-eda, Kitano, Zhang-Ke, Kar-wai, Loach e via dicendo, che costituiscono il motivo d'attrazione (talora andato deluso) dei festival maggiori?

La prima risposta all'interrogativo è la più evidente e banale, e riguarda le strutture. La Piazza è unica, le varie sale sono capienti e dotate di una qualità di proiezione sufficiente. Ma voglio ricordare un aneddoto personale: quando anni fa mi ritrovai con Steven Spielberg ad osservare dal palco la splendida prospettiva della Piazza, amazing  disse - mai visto qualcosa del genere. E se piove?

La verità al momento delle contrattazioni è che il rischio di dovere sloggiare ottomila persone sotto l'acqua, ma anche la prospettiva di offrire l'estetica (e la comodità delle poltrone&) del Fevi o delle due Sale impediranno sempre di potersi aggiudicare gli eventi maggiori le opere più importanti (per l'importanza dell'investimento, ma pure per la reputazione artistica degli autori) in circolazione. Molto meglio di quanto stia facendo l'attuale Direzione è impossibile. Se non con l'investimento scartato a suo tempo, la possibilità di coprire la Piazza. Che rimane la carta più esclusiva in mano a Locarno.

Nel frattempo, e perché il festival acquisti un maggior potere di richiamo internazionale (largamente sopravvalutato da chi si limita al conteggio dei biglietti di favore o meno) si può sempre migliorare l'identità della manifestazione, trovare dei rimandi fra le varie sezioni che attraggano gli operatori importanti interessati ai temi trattati, invitare tappeti rossi e anche grigi purché abbiano attinenza con quanto proiettato. In breve, inventare formule di programmazione (inedita o informativa) che rendano praticamente indispensabile per cineasti, produttori, critici e appassionati a staccare il biglietto per Locarno. Mancano 365 giorni per provarci.

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