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...E ORA PARLIAMO DI KEVIN
(WE NEED TO TALK ABOUT KEVIN)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 26 marzo 2012
 
di Lynne Ramsay, con Tilda Swinton, Ezra Miller, John C. Reilly, Jasper Newell, Rocky Duer (Gran Bretagna, 2011)
 
La natura insondabile del male. L'amore di una madre; totale, impotente, quasi sconsiderato, per un futuro delinquente. Poche volte al cinema si è chiamati ad una riflessione (tratta dal libro di Lionel Shriver ) durissima, priva di concessioni come quella proposta da WE NEED TO TALK ABOUT KEVIN .

Kevin, neonato senza tregua urlante (alla mamma non rimane che accostare la carrozzina alla perforatrice del cantiere stradale per ottenere un attimo di respiro), bambino cresciuto negli agi design di in una famiglia della middle class nuovaiorchese, ragazzino brutalmente refrattario ad ogni tentativo di affetto, adolescente cinico e crudele, infine fatalmente spietato. E una madre (Tilda Swinton, impressionante) ), che rinuncia alle proprie ambizioni per dedicarsi alla crescita del diabolico marmocchio, dell'odioso provocatore adolescenziale: rapporto di amore e odio, impossibilità affettiva (unilaterale? l'abnorme, radicale mostruosità caratteriale di Kevin, cosi come dipinta dagli autori, rende laboriosa la lettura), interrogazione sulla condizione materna: itinerario di un senso di colpa, tanto più doloroso quanto cosi ovviamente ingiustificato, che troverà però nelle sequenze finali della tragedia un'evidenza sorprendente e anche commovente.

Lynne Ramsay, scozzese, rivelatasi nel 1999 con un RATCATCHER dal realismo spietato alla Mike Leigh, procede alle ricostruzione di quell'estremo mosaico esistenziale ancorando le sue indubbie intuizioni espressive, un senso fin troppo incandescente di un fantastico un po' alla ROSEMARY'S BABY, con una progressione drammatica assolutamente razionale. Non giudica, non specula su ipotesi psicologiche, non approfitta del fastidio e dell'orrore: si appropria con emozione dell'istante presente, dell'incisione geometrica negli spazi, dell'invasione ossessiva dei suoni, dell'impatto trascendente dei colori e delle luci, delle musiche paradossalmente country, dell'ondeggiare misterioso, forse terribile della trasparenza di un tendaggio su sottofondo minaccioso d'irrigatore. E inserisce tutta questa materia nella generosità della sua introspezione, in un'architettura temporale dalla lucidità assoluta.

Scampoli di una conclusione che lo spettatore ha intuito quasi a controvoglia; e, progressivamente, frammenti di un passato, squarci delle illusioni originali, delle ambiguità e delle frustrazioni del non-detto che verranno condotti progressivamente dal montaggio a riemergere, fino a coincidere perfettamente.


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