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GRAN TORINO
(GRAN TORINO)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 15 marzo 2009
 
di Clint Eastwood, con Clint Eastwood, Bee Vang, Ahney Her, Christopher Carley (Stati Uniti, 2008)
 
Non sarà ancora il testamento del Grande Vecchio; ma GRAN TORINO, oltre al soffio magistrale permesso all'artista ancora nel pieno delle proprie energie creatrici, ma cosciente che sia giunto il momento di osservare il proprio cammino da distanze sempre più sagge, rimarrà nella memoria come una delle tappe più significative di un percorso cinematografico ineguagliabile. Nelle due ore del film, il vedovo novello e il reduce quasi incartapecorito della guerra di Corea, protagonista insopportabile del fai da te dalle connotazioni ovviamente razziste, prende tutto il tempo che occorre per riflettere e concludere sull'inutilità della violenza.

Nelle due ore, l'autore di GRAN TORINO filma sé stesso, il proprio corpo ingessato e sublimato nei gesti mitici che ne hanno fatto la fortuna; riproduce, a tratti spassosamente ed infine accoratamente, la mutazione in atto nella propria mente. Come riesce talvolta ad alcuni grandi, Clint il mitico rivede così l'intero arco tematico del proprio cinema e di conseguenza anche della propria ideologia. Dall'eccitazione dell'azione, dagli impulsi della reazione cari all'ispettore Callaghan scivola dolcemente nella visione generosa e umanistica di chi ha tirato le somme; non solo nella melanconia della rassegnazione, non nell'esaltazione del sacrificio, ma nella razionalità della riflessione e dell'intelligenza.

Ultima delle figure che hanno reso immortale Hollywood, l'Eastwood del ventitreesimo film da regista e quarantaseiesimo da protagonista si ritrova così in una sintesi splendidamente armonica. Da un lato, il giustiziere flemmatico del West operistico inventato da Sergio Leone in PER UN PUGNO DI DOLLARI, o il poliziotto implacabile di tutta la serie avviata da Don Siegel nel suo DIRTY HARRY. Dall'altro, il reduce di un'America ferita per sempre, che porta in sé la colpa e l'impossibilità di espiarla. Di volta in volta, la melanconia crepuscolare, l'impotenza nell'uso della violenza, la difficoltà della trasmissione della conoscenza e dei suoi valori, il tema della filiazione, il rifiuto del rifugio nella consolazione che segna tutta la seconda parte dell'opera del cineasta; nei toni e nei contesti ammirevolmente variati, da GLI SPIETATI a I PONTI DI MADISON COUNTY, da A PERFCT WORLD a MILLION DOLLAR BABY, a LETTERS FROM IWO JIMA.

Uno dei grandi pregi di GRAN TORINO è di costituire una sintesi di tutte queste ormai leggendarie vene "eastwoodiane" in un tono da stato di grazia; nella gravità dovuta, ma coniugata con una leggerezza, un'ironia, un umorismo a priori inimmaginabili. Il suo irascibile protagonista, il malnato del melting pot polacco dagli inesistenti rapporti famigliari e sociali, si ritrova confrontato nell'essenzialità scenografica del film (due villette accostate della periferia di Detroit invasa dagli immigrati) alla serenità della convivenza orientale di una comunità hmong: i senza patria, costretti ad emigrare negli Stati Uniti per aver combattuto accanto agli americani all'epoca del Vietnam. Con la vena arguta e profonda dei pittori dell'America dei Ford, dei Walsh, Capra o Kazan, da quelle contraddizioni multiculturali, l'Eastwood regista imprime alla maschera indurita del Clint attore tutto lo smarrimento e il rifiuto esistenziale di chi contesta il proprio ruolo di padre, così come quello dell'altro “padres”, il sacerdote che tenta, non esattamente bene accetto, di capirlo; senza parlare di quello del padre con la maiuscola.

È tutta la rabbia, oltre alla malinconia, di chi vorrebbe (e con lui una parte degli spettatori) risolvere a colpi di tradizionali pistolettate la violenza che avanza nel quartiere, la prepotenza becera delle bande che insidiano la saggia esistenza dei vicini, oltre che il taglio impeccabile del suo praticello. La frustrazione dell'equazione impossibile (che è poi quella di tutto il cinema di Eastwood): fare coincidere la maturità della riflessione con l'esigenza di una reazione, opporre il pensiero all'azione. Come trasmettere e dialogare, piuttosto che rinchiudersi all'interno delle frontiere invalicabili della cattiva coscienza, del peso di una colpa che, ad immagine di tutti i significati del film, noi è mai individuale bensì collettiva. La soluzione verrà dalla sorprendente sintesi finale, meravigliosa nei tempi cinematografici come in quelli umanistici e poetici. Così la parabola del film e dei dubbi del Grande Vecchio potrà dirsi definitivamente conclusa. Così, dov'è ormai atteso, l'azione del poliziotto dai metodi sbrigativi dei tempi che furono non potrà ormai che sfociare nella lucida accettazione di un sacrificio che nulla ha da concedere, nemmeno alla nostalgia.


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