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COUS COUS
(LA GRAINE ET LE MULET)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 8 giugno 2008
 
di Abdellatif Kechiche, con Habib Boufares, Hafsia Herzi, Farida Benkhetache, Abdelhamid Aktouche, Bouraouïa Marzouk, Alice Houri, Cyril Fayre, Leila D'Issernio, Abdelkader Djeloulli, Bruno Lochet (Francia, 2007)
 
Un film straordinario, come tutto ciò che succede d'ordinario, di normale, di condivisibile nella vita di Slimane, sessantenne d'origine algerina, operaio nei cantieri navali di Marsiglia. LA GRAINE ET LE MULET, vincitore morale all'ultima Mostra di Venezia, ricompensato infine con il Gran Premio della Giuria non è soltanto la cronaca delle disavventure di un'ennesima vittima della disoccupazione. Ma un indimenticabile spaccato di vita nell'anno di grazia 2007: una visione tenuta miracolosamente in vita fra la poesia della finzione e una resa incredibilmente immediata della realtà. Una ricerca commovente della verità che spazia in continuità il proprio respiro dalla famiglia al gruppo, alla società, per ritornare a centrarsi nell'intimità più profonda dell'individuo.

In tre tempi, dapprima psicologici, con Slimane (Habib Boufares, incancellabile dalla memoria) che decide di non rassegnarsi, aprendo un ristorante in un battello in disuso della rada. Sociali in seguito, quando, malgrado il sostegno di una nuora assai più navigata di lui (Hfsia Herzi, Premio Mastroianni a Venezia 2007) ogni forma di solidarietà si arena miseramente nell'indifferenza della burocrazia, cittadina, bancaria che sia. Terzo tempo, infine, drammaturgico, quello degli eroi solitari che tentano di sopravvivere grazie al buonsenso, alla buona volontà: quando Slimane e la sua famiglia decidono di arrangiarsi da soli, "envers et contre tous", come dicono da quelle parti. Quando anche il couscous riesce a caricarsi di un insostenibile, altrettanto straordinario suspense hitchcockiano.

Melodramma sociale? Scavando ruga dopo ruga sul viso del suo indimenticabile protagonista, come su quelli più scanzonati, disinvolti fino alla sbadatezza dei più giovani, il cinema di Abdellatif Kechiche, come già traspariva dallo splendido precedente di L'ESQUIVE (LA SCHIVATA) rifugge dallo schematismo della formula, inventa delle storie romanzate, ma inseguendo ogni forma di vita sui suoi personaggi presi dal vero. Si lascia trasportare dagli sfoghi, dalle esclamazioni, dalle tirate dei suoi personaggi così naturali, pure banali, perchè di banalità, quindi di normalità, e non certo di letteratura è fatta quella Marsiglia.

Condensato racchiuso fra le quattro mura dell'appartamento sul porto, nello spazio socialmente spalancato del battello-ristorante, full immersion nella famiglia attorno al rito della nutrizione, riflesso della fusione dei popoli, arabi e francesi, vecchie e nuove generazioni, in una naturalezza non si sa come preservata da un montaggio che deve districarsi fra una decina di personaggi. LA GRAINE ET LE MULET fa sua la lezione della coralità alla Altman, del privilegio dell'eroe sociale alla Dardenne, della rivolta politica alla Loach, uniti al privilegio dell'istante presente alla Pialat.

Fino a quell'ultima parte, incredibilmente protratta, nella rincorsa mortale al motorino rubato dai ragazzini in un gioco di crudeltà infinita, nel lungo ballo, sensuale e disperato: donne vincenti nella vita anche se arabe, tornate a cuocere couscous e far danzare il ventre, uomini vinti dal destino nello strazio di Slimane come nell'impotenza indifferente dei suoi figli. Indimenticabile.


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