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BAMAKO
(BAMAKO)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 4 dicembre 2006
 
di Abderrahmane Sissako, con Aissa Maiga, Tiecoura Traoré, Helène Diarra, Danny Glover (Mali, 2006)
 
Bamako: la capitale del Mali significa “stagno dei caimani”. Come parlare allora della condizione stagnante nella quale i caimani attorno hanno da sempre relegato l'Africa; come accostare quel dramma, uno dei più vergognosi della nostra epoca, al gioco tanto più futile dello Spettacolo? Come fondere i simboli della finzione alla polvere della realtà, l'invenzione alla didattica, la politica alla favola, l'élite del pubblico al privato del popolo, il palcoscenico alla strada, la commedia dell'arte al film sul processo hollywoodiano? Perché a tutto questo riesce, incredibilmente e spesso meravigliosamente questo film lucido e poetico, insolito e prezioso: per la storia di un cinema che incontra le stesse difficoltà e che rivendica gli stessi diritti della terra da cui nasce.

E' cresciuto proprio in un quartiere di Bamako, Abderrahmane Sissako, il regista che, già a Cannes, si era fatto conoscere nel 2002 conquistando con EN ATTENDANT LE BONHEUR il Premio della Critica internazionale. Non solo: ma è proprio all'interno del cortile di casa sua che il cineasta installa l'apparentemente strambo processo di BAMAKO, con i suoi giudici popolari che non disdegnano gli addobbi della tradizione penale, i testimoni giunti dalla campagna, i cittadini che sbirciano dalla strada, il pubblico su un paio di dozzine di sedie impagliate. E con i caimani: gli avvocati incaricati di difendere il Fondo Monetario Internazionale, la banca mondiale, l'umanità responsabile di un sistema di spoliazione irreversibile, di un prestito non solo impossibile da rimborsare ma destinato a strangolare progressivamente un paese del quale ci si è impadroniti delle risorse, usurpata la sovranità, alimentato la corruzione, scimmiottato la cultura.

Tutte queste belle cose che fa recitare, verissime e risapute, Sissako le mescola alla gente comune: agli occupanti di un'altra sorta di teatro, l'immutabile, imprescindibile quotidiano africano degli abitanti del cortile. Che lo attraversano per andare al pozzo dal vicino; per farsi allacciare da mani compiacenti o imbarazzate il corpetto, come le bella moglie insoddisfatta. Tutti indifferenti, perfettamente consci della vanità delle parole che da sempre sentono enunciare attorno a loro. E il regista dilata ancora lo spazio nel quale far riflettere la propria dialettica: inserisce altre micro-finzioni , un ammalato che agonizza in mancanza di cure appena ai margini dell'aula-cortile, un gioco distraente di telefonini, un paradossale ma in effetti terribilmente metaforico western spaghetti di colore sugli schermi della tivù. Una coppia di giovani in difficoltà: con il leitmotiv di lei, cantante di night in attesa di rincorrere i propri sogni a Dakar, che muta la parabola del film in atmosfere più mondane.

Testimone di un popolo ormai incredulo nella giustizia ma ancora capace di passare in un attimo dal pianto alla risata.


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