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FLAGS OF OUR FATHERS
(FLAGS OF OUR FATHERS)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 6 dicembre 2006
 
di Clint Eastwood, con Ryan Phillippe, Adam Beach, Jesse Bradford, Barry Pepper, Jamie Bell, Paul Walker (Stati Uniti, 2006)
 
Sono in effetti due, le bandiere dei nostri padri del titolo. Cosi come due sono addirittura i film (il secondo, con la faccenda rivista dalla prospettiva giapponese, uscirà a febbraio) che Clint Eastwood ha voluto dedicare alla terribile conquista nel 1945 dell'isolotto caposaldo di Ivo Jima. Dove gli americani patirono il più alto numero di vittime della loro storia, settemila morti e 19000 feriti; ventunmila furono le perdite giapponesi. Ed al termine della quale cinque marines issarono il simbolo divenuto immortale con la fotografia di Joe Rosenthal e l'altrettanto celebre monumento ai caduti del cimitero di Arlington.

Due bandiere, due film per un uomo fatto tutto di un pezzo. Dai tempi di GLI SPIETATI, A PERFECT WORLD, fino a MYSTIC RIVER, all'ultimo MILLION DOLLAR BABY l'autore ai tempi emblematicamente volitivo, ed ora melanconico fino ad essere crepuscolare non è soltanto l'ultimo erede dei Ford, degli Hawks, o ancora dei Walsh, o dei Dwann; ai quali si pensa qui, per la sicurezza, la serenità del linguaggio, e non più tanto per un piacere di riandare a quei vari filoni. Ma per quel suo essere uomo libero, prima ancora che cineasta grande e ispirato. Per il proprio coraggio civile, l'impegno morale, unico fra i vecchi marpioni hollywoodiani. Alla prima bandiera, quella “vera”, quella che fu subito sostituita affinché l'effetto desiderato riuscisse meglio, è allora dedicata la prima parte del film. Cronaca dell'attesa sulle navi, poi dello sbarco sotto il fuoco di un nemico sovrastante. Nella tradizione del sacrificio incosciente o dell'abnegazione più nobile di tanti giovani, sotto l'occhio cinico e spesso incompetente di chi decide del loro destino. E nell'estetica non molto dissimile da quella iperrealista, tremendamente efficace di SALVATE IL SOLDATO RYAN; di quello Spielberg con il quale (non so fino a che punto proficuamente: se non per quel sottofondo insistito sulla distesa amplificata digitalmente della flotta attorno all'isola) con il quale è stato coprodotto, e indubbiamente concepito il film. Fortunatamente, l'insensato macello Eastwood va a girarlo in Islanda: e quindi su delle spiagge nere, insudiciate di polvere vulcanica, per delle rocce lunari, dagli anfratti e dalle viscere primordiali, dove la sua fotografia verdognola e snaturata, il montaggio sferzante, l'alternanza dei primi piani finisce per creare un universo allucinante e disumanizzato.

Ma c'è la seconda bandiera quella che serve a farci comprendere come gli intenti di Eastwood non fossero di girare “soltanto” un film antimilitarista alla Kubrick o alla Malick. Fotografata su Life e resa celebre in tutto il mondo come segno di fine barbaria, questa diventa la protagonista della seconda parte del film: qualche mese più tardi, attraverso gli Stati Uniti, quando tre dei soldati dal viso celato all'obbiettivo (due saranno morti nel frattempo…) verranno costretti ad una commedia di tutt'altro genere. In un technicolor ora sgargiante, fatto di ghirlande, fanfare e maquillage d'epoca; ma altrettanto perversa, assurda ed ipocrita. Che costringe i militi ad abbandonare i compagni di sventura per una tournée promozionale in favore della raccolta di buoni del Tesoro destinati al rilancio della guerra. Per una interpretazione del ruolo dell'Eroe, una mercificazione del Sacrificio che dimostrerà quanto la guerra del denaro aggiunga miserie e distrugga l'intimo delle coscienze al pari di quella dei proiettili.

Un po' appesantito dalla sua meccanica drammaturgica (la sceneggiatura del grande Paul Haggis funziona meno bene che in CRASH on in MILLION DOLLAR) FLAGS OF OUR FATHERS nasce da qualcosa che si fa raro nei nostri tempi: una lucidità mai faziosa, una volontà di riferirsi al presente, un'esigenza di verità che finisce per premiare la facilità dell'ispirazione.


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