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CHARLIE E LA FABBRICA DI CIOCCOLATO
(CHARLIE AND THA CHOCOLATE FACTORY)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 2 ottobre 2005
 
di Tim Burton, con Johnny Depp, Freddie Highmore, Helena Bonham Carter, David Kelly, Deep Roy, Christopher Lee (Stati Uniti, 2005)
 
Film di bambini per adulti, o viceversa? Quelli del papà di EDWARD MANI DI FORBICE affrontano fantasmi della fiaba e realtà dell'età adulta, potere e fragilità, umanità del diverso, ambiguità delle apparenze doppie. Dove ogni certezza viene contraddetta; e buoni o cattivi lo si è sempre a metà. Come nel caso di Willy Wonka, il cioccolataio prorietario di una fabbrica affascinante e minacciosa come quella di METROPOLIS: che per premiare (ma soprattutto punire i più odiosi) cinque ragazzini li invita all'interno della sua costruzione.

Che il grande visionario del cinema americano incontrasse l'universo di Roald Dahl ("uno dei rari autori per l'infanzia dall'umorismo sovversivo, politicamente scorretto, dalla scrittura cosi ambigua da impedirci di capire se i bambini li ama o li detesta, se Willy Wonka è buono o cattivo") ed uno dei suoi classici più amati non desta allora nessuna sorpresa. L'immaginario diTim Burton si nutre della propria straordinaria golosità espressiva: BATMAN o MARS ATTACK!, SLEEPY HOLLOW o BIG FISH, senza parlare del suo cinema di animazione si costruiscono sull'esplosione di una invenzione figurativa che sembra incontenibile.

Più che un film sulla golosità, però, CHARLIE E LA FABBRICA DI CIOCCOLATO è un film sull'ingordigia. Ed in questa leggera distinzione sono contenuti gli evidenti pregi di una serie strepitosa d'intuizioni cinematografiche (dalla successione allucinante delle scenografie alla fusione esemplare fra elemento umano ed effetto digitale, all'uso del colore o delle musiche, alla meraviglia continua nei confronti dell'ambiente, insomma; come nella indossociabile fusione con la maschera-robot del determinante, anche sotto la cipria, Johnny Depp); ma pure di qualche segnale di sazietà che viene a frenare tanta gioia di assistere a creare.

L'arte di Burton non si esercita, intendiamoci, tanto per fare. Alimentato dalla corrente limacciosa del fiume di cioccolato, il labirinto immaginifico della fabbrica che Willy Wonka ci presenta prima che si sciolgano in fiamme caramellizzate trono, pupazzi e carillon buonisti è ad immagine di un universo di avidità consumistica, di consumazione gastrica che non è difficile apparentare a quello della realtà contemporanea. Nell'inumanità di quella meccanica industriale come nell'eden organico degenerato nel quale affondiamo con delizia sempre decrescente, sono varie tipologie della nosta società ad essere ingurgitate: dalla banale bulimia del figlio del salsicciere tedesco al competitivismo rampante di una atroce biondina, dal feroce abuso di potere dell'altra assecondata dal padre in ogni capriccio alla smania tecnologica che conduce ad una onnipotenza distruttrice dewl quarto ragazzino.

Rimarrà, com'era facile prevedere, l'adorabile Charlie nel suo mondo dickensiano, con i suoi altrettanto simpatici parenti. Un finale di elegia famigliare che non è forse il massimo visto gli entuasiasmi sovversivi reclamati dal regista per il suo incontro con Dahl: il che arrischia di alimentare qualche sospetto di compiacimento - forse ingiusto nei confronti di un cinema generoso come, ahimé, cosi pochi in circolazione - attorno a quel piatto di meraviglie che ci è stato appena offerto.


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