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CLOSER
(CLOSER)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 29 dicembre 2004
 
di Mike Nichols, con Julia Roberts, Jude Law, Clive Owen, Natalie Portman (Stati Uniti, 2004)
 
"Delle storie d'amore ricordiamo l'inizio e la fine, ma eliminiamo il durante. CLOSER ci fa riflettere sui meccanismi del ricordo", dice Mike Nichols. Che avendo ormai più di 70 anni, ed essendo il regista allora reputatissimo di CONOSCENZA CARNALE, CHI HA PAURA DI VIRGINIA WOOLF o IL LAUREATO di queste cose dovrebbe intendersi. E difatti, non è di certo la mancanza della "conoscenza" alla quale si intitola quel suo film emblematico che scandalizzò l'America dei primi anni Settanta, che si può rimproverare a CLOSER. Impeccabile, come molti dei suoi meccanismi. Nella sua storia, in una Londra che si vuole più swinging che mai, dello scrittore (Jude Law) che sfugge alle proprie frustrazioni di redattore di necrologi per convivere con una vivace spogliarellista (Natalie Portman), ma soccombe al fascino evidente di una nota fotografa (Julia Roberts). Solo provvisoriamente, ci mancherebbe: poiché mette in atto tutto il proprio funambolismo di "chatter" sostituendosi alla bella in un incontro dapprima solo virtuale (la sequenza è di certo la più curiosa e riuscita del film) con un dermatologo (Clive Owen) in perenne stato di eccitazione. Il quale, a sua volta... Rettangoli, insomma: all'interno dei quali tutti si amano e si tradiscono, si seducono e non si sopportano con altrettanta precipitazione.

Impeccabile. Nella direzione degli attori, quasi ovviamente. Visto che è sempre stato un forte di chi ha retto le briglie a gente come Richard Burton e Elizabeth Taylor, Dustin Hofman e Orson Welles, Jack Nicholson e Meryl Streep… Anche se la migliore è la meno nota, Natalie Portman; e la più nota (Julia Roberts), la più a sbalzo (Jude Law e Clive Owen essendo piuttosto distratti dal valorizzare le proprie nomination agli Oscar). Certo, l'esperto cineasta non sbaglia un solo tempo nel sistemare le sue immagini sulla struttura della pièce teatrale di successo firmata a Londra da Patrick Marber nel 1997. Si apprezza; e ci si obbliga a stare dalle parti di un gioco che occhieggia a tutto un cinema europeo. Elegante nella forma; più vago in uno sguardo fatto di sofisticazione verbale iscritto in un design piuttosto forzato.

Desiderare e usare, osare ma non troppo; non fosse che per evitare di incorrere nelle penalità sempre feroci ai fini distributivi della censura americana. Così, la filosofia non proprio abissale che in amore è meglio evitare di proclamare il vero finisce allora per essere la chiave di un film che si vorrebbe libertino; ma che riflette, forse suo malgrado e, certo, paradossalmente, un moralismo dalle radici ben più radicate di quelle hollywoodiane.


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