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BIG FISH
(BIG FISH)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 2 marzo 2004
 
di Tim Burton, con Ewan McGregor, Albert Finney, Billy Crudup, Jessica Lange, Alison Lohman, Danny DeVito, Helena Bonham Carter, Steve Buscemi (Stati Uniti, 2003)
 
"A furia di raccontare delle storie, un uomo diventa quelle storie"; come il protagonista di BIG FISH. O come il pesce vetro rosso, che cresce condizionato dalle dimensioni della sua boccia in; che, se vuol diventare grosso, deve potere vivere in uno spazio che sia all'altezza delle proprie sfide. E quale allora, se non quello smisurato dei propri sogni?

Ma quella frase conclusiva pare messa lì apposta per definire chi queste storie le inventa e le illustra. Poiché, se BIG FISH ci dice tutto delle fantasie di Ed, che ha vissuto fra streghe e giganti, e di suo figlio Will, il giornalista con i piedi per terra che faticherà fino all'ultimo per conciliare la propria onesta normalità con l'irrealtà fantasmagorica del padre, il film sembra svelarci quanto ancora rimaneva da scoprire della follia visionaria, della fede nelle fiabe, nella purezza cosiddetta infantile di Tim Burton.

Non a caso, infatti, il sognatore Ed si chiama come il protagonista di EDWARD MANI DI FORBICE: il "diverso" mostruoso e gentile, eccentrico e strano, che riesce commoventemente a piegarsi ad una logica umana. Ma è pure il nome di quello di ED WOOD: primo, fra i personaggi di Burton, dopo i Batman, i Pinguini o le Catwomen, a non appartenere all'universo affascinante e mitico, ma pur sempre artificiale della fiaba. Il primo ad essere individuo in carne ed ossa, integrato in un universo di quotidiana, banale normalità, del tutto simile a quella che noi tutti conosciamo. E, di conseguenza, più vicino e coinvolgente; pur nel suo rifiuto di accomodarsi al conformismo del sistema, in quel suo rifugiarsi nella grazia poetica della fantasia e dell'illusione. O, se proprio volete, nel fascino contraddittorio che emana da ogni fanfarone.

BIG FISH concilia i due volti della carriera di uno degli ultimi poeti ribelli sopravvissuti all'inesorabile appiattimento dell'ex-macchina dei sogni di Hollywood. Da un lato, la fuga nell'universo dei diversi, dei nani, delle sorelle siamesi. Dei pagliacci, delle maschere: che non servono tanto a nascondere l' identità, ma la propria purezza e fragilità. Ma dall'altro, l'esigenza di richiamarsi, senza abdicare per un solo attimo alla giubilazione inventiva, a delle urgenze meno astratte: quelle di una realtà che, come qui, appare addirittura personale ed autobiografica, la frattura generazionale, la difficoltà del dialogo, il rapporto padre e figlio.

Come il protagonista di BIG FISH, Tim Burton è un inarrestabile cantastorie; e il fascino del film nasce anche da come riesca a governare (oltre ad un cast sontuoso) grazie all'arte della narrazione, un'infinità di spunti e di riferimenti. Il racconto di come Ed si fece adulto grazie alla propria fantasia, certo. Ma anche la ricostruzione di quel racconto, a colpi di flashback, visto da uno scettico come suo figlio: che imparerà a capire, comunque ad amare il garrulo simpaticone. Racconto, ancora, di come si costruiscono i miti. Quello del rapporto edipico, ma anche quello di una certa America (la guerra di Corea, l'ambientazione anni Cinquanta). E del modo con il quale il cinema americano si è chinato sulla sue presunte realtà: si pensa spesso agli universi fittizi, più inquietanti che sognanti di THE TRUMAN SHOW o di BARTON FINK; ma non mancano i riferimenti quasi surreali alle rapine di BONNIE AND CLYDE; senza parlare di quelli, cosi evidenti da essere arrischiati, ma fortunatamente ispirati, al Fellini del circo o dell'Amarcord finale.

Narrazione complessa, frammentata nel tempo, nello spazio e soprattutto nei toni; ma che Burton riesce a tradurre con una straordinaria fluidità. Immergendola nella luce dorata di un melanconico realismo poetico, oppure in un simbolismo divertito (l'elemento liquido, filmato nella magia di una piscina traslucida, del fiume bucolico che contiene quel pesce gigantesco ed imprendibile), o ancora rifugiandosi in una di quelle gag surreali che ricordano MARS ATTACK. Con qualche indulgenza nei confronti di un sorprendente sentimentalismo; il sospetto di un certo compiacimento nel proprio debordante potere immaginifico. Al quale, però, sarebbe colpevole e punitivo non sapersi abbandonare.


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