Nord della Spagna, i cantieri navali che chiudono, tre disoccupati in cerca di lavoro: organizzato attorno alla personalità di un grande attore come Javier Bardem, sembra di essere dalle parti di un Ken Loach, emigrato dalle nebbioline al sole (ma è quello invernale, che scalda poco, quando non hai altro da fare che passare la giornata su una panchina) di Vigo. Come nei film di quel maestro del cinema sociale c'è la volontà di scavare nella realtà della società, con uno sguardo finissimo all'ambiente; e di analizzare come un degrado esistenziale che avviene in modo indipendente dalla volontà dei personaggi finisca per colpirli nell'intimo, all'interno della famiglia o della coppia.

Il cinema di Fernando Leon de Aranoa (al suo terzo lungometraggio, ricompensato con la massima distinzione al festival di San Sebastiano, e clamoroso successo anche di cassetta) è più classico di quello di Loach: meno propenso nel lasciarsi andare a catturare con una cinepresa mobile i soprassalti minimi dei personaggi, il profumo degli sfondi. Ma se la sceneggiatura pecca per qualche concessione alle situazioni del genere, i dialoghi, molto più scritti di quelli di Loach, sono egualmente perfetti. Pur nascendo da una riflessione cinematografica diversa hanno in comune la straordinaria facoltà di situarsi con grande misura e discrezione nella tragicommedia: in quell'universo dove il riflesso umoristico all'interno del dramma finisce per decuplicare la forza dell'uno e dell'altro. In poche parole, ad essere verissimo.