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HOLLYWOOD ENDING
(HOLLYWOOD ENDING)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 20 novembre 2002
 
di Woody Allen, con Woody Allen, Téa Leoni, George Hamilton, Debra Messing, Treat Williams (Stati Uniti, 2002)
 
Da sempre, esistono i falsi grandi-film (PINOCCHIO, ahimè) e, al polo opposto, i falsi piccoli-film. Fra tutti gli autori di quest'ultimi, Woody Allen rappresenta uno degli esempi più eclatanti (non è forse diventato, a colpa di tanti "piccoli" film, uno dei più grandi cineasti americani della propria generazione?); ed un film come HOLLYWOOD ENDING un momento, come sempre nella sua carriera, significativo.

"Un Allen minore, destinato soltanto a far ridere", si è andato ripetendo da quando ha inaugurato l'ultimo festival di Cannes. Come spesso accade, non si sono fatti molti sforzi per spingersi aldilà dell'aneddoto: quello, in effetti esile fino all'ovvietà, di un "autore" di antico successo ma ormai detestato da Hollywood (anche a causa delle sue infinite, tipicamente alleniane iatture: dall'emicrania alla peste bubbonica, alla febbre aftosa…) che si vede assegnare inaspettatamente un film a grosso budget. Con il risultato di esigere dai biechi produttori della mai sufficientemente esecrata West Coast, (occhiali da sole in ufficio, autoabbronzante, e via) di poter girare rigorosamente in bianco e nero con la collaborazione di un irascibile direttore della fotografia cinese che parla solo in mandarino ma che "ha lavorato molto con l'Armata Rossa"; e di somatizzare, in conseguenza, fino alla cecità.

Semplice, facilino, e già visto. Sennonché, HOLLYWOOD ENDING è si, una satira; ma, soprattutto, una commedia. Come in STARDUST MEMORIES, PALLOTTOLE SU BROADWAY o CELEBRITY, Allen riprende il tema fortemente autobiografico del creatore confrontato alla cupidigia ed all'ignoranza più spiccia: dei compromessi ai quali l'artista è costretto per garantirsi il proprio posto al sole. Ma alla rabbia con la quale dipingeva il cinismo vanesio di Kenneth Branagh in CELEBRITY, all'amarezza riversata PALLOTTOLE SU BROADWAY, dove l'artista, pur di sfondare, accettava i soldi del boss mafioso, il regista ha sostituito -condita da tutta una serie di riferimenti al burlesque di Chaplin e di Keaton- i toni agrodolci dell'artista maturo, plasmati dall'esperienza personale.

La cecità, seppur momentanea del protagonista non è mai (o soltanto) semplice strumento per la banale gag comica. Ma indice di riflessione, esistenziale, psicanalitica: in una proiezione della comicità verso il melodramma che ricorda anche qui il Chaplin ultima maniera. Cecità esistenziale, e per certi versi strumentale: che gli servirà per sensibilizzare un ambiente che lo ignora, una moglie sfuggita provvisoriamente alla casta nuovaiorchese, un figlio che, come gli spiegherà l'inevitabile psicanalista, egli si rifiutava da sempre di "vedere".

Tranquillamente, il cinema di Allen continua ad evolvere; e non necessariamente nella facilità. Meno ambiziosamente "alla Fellini" o "alla Bergman" che in passato; più diretto e lineare, nello stile come nel discorso (ecco perché appare "più comico"), nella pittura dei personaggi. Come quello, delizioso nella sua semplicità poetica, dell'ex moglie da riconquistare (forse il fulcro emotivo, attorno al quale si organizza il film), interpretato con infinita giustezza e seduzione da Téa Leoni. HOLLYWOOD ENDING è un film in perfetto equilibrio: fra le gag inventate dall'artista ed i rinvii personali rivelati dall'uomo.


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