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FEMME FATALE
(FEMME FATALE)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 11 dicembre 2002
 
di Brian de Palma, con Rebecca Romijn-Stamos, Antonio Banderas, Peter Coyote, Rie Rasmussen (Stati Uniti, 2002)
 
Ad un maestro del voyeurismo cinematografico, ad un manipolatore eccelso, e pure eccessivo, del potere illusorio dell'immagine, ad un cineasta come Brian De Palma che si è da sempre interrogato se potevamo credere in ciò che stavamo guardando, un film come FEMME FATALE non poteva che riuscire a questo modo. Seducente ed irritante, eccitante e disordinato; esaltante (nella forma), e ciondolante (nei contenuti).

Condurre per mano lo spettatore in un gioco ad incastro d'illusione, frustrarne il processo di deduzione logica in nome dello strapotere del proprio sguardo, distoglierlo dalla qualità (o vogliamo dire la chiarezza, la verosimiglianza?) delle situazioni e delle psicologie, per concentrarlo piuttosto sul "modo" secondo il quale è organizzata la visione: tutte queste caratteristiche dell'autore sono fin troppo facili da ritrovare qui. Nel suo primo film girato lontano dalle costrizioni, non necessariamente nocive, di Hollywood; primo, in una lunga ed a tratti pure eccitante carriera, nel quale si è forse sentito libero di abbandonarsi completamente alla propria golosità di filmare.

FEMME FATALE non è allora che un delirante esercizio di stile? Di certo, è un eclatante esempio di virtuosismo filmico. La solita (per de Palma) incredibile tenuta nella prolungata, brillantissima sequenza di un furto di gioielli nel Palais in pieno Festival di Cannes; la sensualità, oleograficamente hollywoodiana delle tinte sature, le illuminazioni violente della fotografia di Thierry Arbogast; l'irrealtà di quegli esterni anonimi benché parigini, nella luce naturale che si prolunga negli interni sontuosamente coreografati; il ricorso allo split-screen, ai rallentamenti, alle distorsioni sonore, all'indagine di una camera mobilissima che si coniuga alle ottiche più disparate (schermi, monitor, teleobiettivi) garantiscono una ricerca, quasi maniacale, di una dimensione straniante. Determinata ad inviarci in un universo onirico, dalla apparenze incerte: quello dei sogni che s'interrompono al momento giusto.

Ma per dirci cosa? Della "dark lady" del titolo, più che di un vero e proprio thriller dall'incedere privo di tensione drammatica. La donna fatale: a partire dalla voluttuosa carrellata all'indietro iniziale, subito svelata ed erotizzata allo spettatore in tutta la sua ambiguità: sovrapposta com'è all'immagine sullo schermo televisivo della Barbara Stanwick di LA FIAMMA DEL PECCATO.

E, ancora, di una di quelle faccende di sdoppiamento, che l'autore di BODY DOUBLE predilige da sempre: ladra di gioielli se ne va con il bottino, ma per sfuggire ai complici indossa le vesti di una sosia, provvidenzialmente provvista di biglietto per l'America. A meno che… Si tratti di un semplice sogno (procedimento notoriamente inviso allo spettatore, manipolato oltre il sopportabile): e tutto possa essere ripreso a miglior fine.

Mosaico, puzzle da ricomporre pazientemente; come tenta di fare l'improbabile fotografo Antonio Banderas. Come riusciva, invece, a quel John Travolta tecnico ipersensibile del suono alla ricerca della verità in uno dei migliori film del regista, BLOW OUT. Più banalmente, forse, FEMME FATALE è fatto per dirci dell'interminabile ex top-model Rebecca Rojmin-Stamos: ad esatta somiglianza voyeuristica del film, oggetto sopra le righe di ogni desiderio, proiezione smisurata di tutti i fantasmi collocati oltre ogni ragionevolezza erotica. Pure brava, nell'incarnare successivamente la mitica Laura della tradizione "noir": dapprima nella bionda androgina che si trasforma in bruna destinata a sostituirsi ad un'altra bruna, la sosia Lily. Prima di ritornare nelle vesti di una Lily sempre diversamente bionda: a tratti da implacabile manipolatrice, a volte da più garbata seduttrice.

Più semplicemente, infine, FEMME FATALE è forse quanto capita ad invaghirsi di MULHOLLAND DRIVE, al quale il regista confessa di aver molto pensato. Ma il conturbante labirinto di David Lynch doveva il proprio fascino poetico ad una logica interna ed intima del suo creatore; che si sostituiva a quella della drammaturgia classica. Quello di De Palma appare come un gioco di specchi più vano che divertito; e, a questo punto, seppure raffinatamente, sconsiderato.


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