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CHICAGO
(CHICAGO)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 4 marzo 2003
 
di Rob Marshall, con Renée Zellweger, Catherine Zeta-Jones, Richard Gere (Stati Uniti, 2002)
 
All that jazz!, sospira a lungo Catherine Zeta-Jones in un body di paillettes che le va un po' stretto mentre si esibisce sulla scena dell'Onyx Club. Ah, Chicago, gli Anni Trenta, il dixieland e la fiaschetta di whisky nel panciotto, la mitraglia facile e le donnine prese a sberle dai goodfellas. Ah, il Bob Fosse di LENNY e di CABARET. Che trasformò quell'invocazione in un cinema magari un po' compiaciuto del proprio straordinario talento; ma così impregnato d'intuizioni dinamiche, spaziali e musicali da renderlo capace di essere quasi palpabile visivamente. E di farsi, al tempo stesso, Oscar e Palma d'Oro a Cannes; prima di portare questo CHICAGO sulle scene di Broadway ad un successo che dura da quasi trent'anni. Ah, che bellezza: il musical è di ritorno, e non so quanti Oscar attendono la prima volta in cinema del regista teatrale Rob Marshall. Già, teatrale.

CHICAGO aveva a disposizione una formula giustamente velenosa ed a modo suo attuale: come, attraverso la manipolazione dei media ed il cinismo di un avvocato privo di scrupoli (oltre che della compiacenza di un pubblico avido di sensazioni non troppo complicate e preferibilmente pruriginose), due assassine a dir poco disinvolte ottengono fama, libertà e successo. Aveva, sembra quasi inutile sottolinearlo, corpi di ballo e colpi di dollaro, scene e costumi, melodie, luci e filtri colorati di un mestiere che affonda la propria sapienza in una tradizione che si perde ormai nella memoria. Aveva tutto, CHICAGO, tolto la cosa principale, un regista di cinema.

Eccolo allora il giocattolone, che potrebbe anche essere godibile per chi si accontenta di una cornice. Consci del proprio (apparente) strapotere,gli autori hanno rimpinzato il film di una successione esagitata di quelli che dovrebbero essere gli ingredienti del caso. Una scimmiottatura dello stile coreografico del Bob Fosse di allora, dei riferimenti classici al genere, in una pigra alternanza di pezzi musicali e recitati; in una assenza di continuità nella costruzione drammatica per non dire nella logica registica che l'esagerazione delle tecniche (di montaggio, di colorazione, di sdoppiamento virtuale) cosiddette moderne rende ancora più fastidioso.

Sogno e leggerezza, fantasia e una meravigliosa libertà creatrice che si liberava di ogni limite erano le prerogative dei Stanley Donen, Cukor o Minnelli: ma non occorre riandare ai capolavori dei tempi di Fred Astaire, Cyd Charisse o Gene Kelly per valutare la volgarità greve del troppo pieno di CHICAGO. Basterà ricordare come era inseriti la grazia e l'erotismo della sublime Nicole Kidman nella continua invenzione formale del recente MOULIN ROUGE di Baz Luhrmann; e sovrapporre le disarticolate ancate della volonterosa Zeta-Jones. O soltanto sfiorare il ricordo della Marylin di Cukor e Wilder per affliggerci dell'anoressico rifacimento che ci propone una patetica Renée Zellweger.

Perché stia in piedi, anche una storia sul trionfo del Male deve essere raccontata nel segno del Bene. E non di quello di un Rob Marshall; che, forse perché terrorizzato dall'idea di dover camuffare l'inadeguatezza dei primi interpreti di un musical incapaci di cantare o ballare, e imbarazzato da un copione che riduce Richard Gere in mutande moltiplica all'infinito i tagli delle riprese e gli effetti stroboscopici. Il tutto non toglierà a CHICAGO i sei o sette Oscar previsti: come usavano ripetere in materia, the Show must go on.


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