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A TEMPO PIENO
(L'EMPLOI DU TEMPS)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 6 novembre 2002
 
di Laurent Cantet, con Aurélien Recoing, Karin Viard, Serge Livrozet (Francia, 2001)
 
A monte di L'EMPLOI DU TEMPS (come del film apparso pochi mesi dopo, L'ADVERSAIRE, di Nicole Garcia) c'è un fatto di cronaca. Un mistero, che ha tenuto con il fiato sospeso la Francia a partire da quel gennaio del 1993: l'enigma di una impostura, clamorosa, drammaticamente rivelatrice del nostro modo di vivere. Quella, grazie alla quale Jean-Claude Romand riuscì, per diciannove anni, a far credere alla propria famiglia, agli amici, alla buona società della cittadina del Giura francese nella quale risiedeva di essere un medico. Di aver evitato il licenziamento, di essere stato assunto in Svizzera, alla sede dell'ONU di Ginevra. Prima dell'epilogo: l'assassinio del padre, della madre, della moglie, dei figlioli. Il tentativo fallito di suicidio, la sopravvivenza, il processo e la condanna, la prigione.

L'interesse del film di Laurent Cantet è di aver sovrapposto a quella tragica notizia da prima pagina una riflessione di poetica esistenziale: una specie di schermo, straordinario, fra la realtà agghiacciante di quell'avvenimento e la condizione umana, sociale, filosofica del nostro tempo che quel fatto ha prodotto e nutrito. Consulente d'azienda licenziato all'improvviso, il personaggio interpretato dal bravissimo Aurélien Recoing s'inventa una nuova vita, fatta di una libertà improvvisamente ritrovata e di un labirinto dapprima fisico, quindi psichico, all'interno del quale è risucchiato inesorabilmente. Mentire a tutti, ed a tutto; ma è una deriva tutta in salita, a cominciare dagli aspetti più immediati, quelli economici, per finire a quelli più segreti, legati alla propria identità.

Questo itinerario, l'autore di uno dei pochi film giusti che si sono fatti sul mondo del lavoro (RESSOURCES HUMAINES) lo conosce, e quindi lo segue con una verità (quella dei personaggi, a che secondari; degli ambienti), una sensibilità (la realtà più evidente trasformata con piccoli tocchi in malessere astratto, metafisico) evidenti. Dall'osservazione della meccanica dell'intimo passa cosi a quella dei suoi contenitori, la cornice delle convenzioni (o,meglio, delle pressioni) borghesi, il quadro opaco, ma quasi tranquillizzante delle zone di sosta autostradali, degli alberghi nella terra di nessuno di frontiera, degli uffici high-tech.

Discesa nelle spire della società e della psiche, tranquilla ed infernale. Con il sorriso sulle labbra; misteriosa dapprima, poi agghiacciante, cosi perbene: deriva esistenziale, nella mitomania, ma pure nel condizionamento inesorabile della famiglia, della classe sociale, di un sistema sempre più esigente. Che lo sguardo di Cantet costruisce con la stessa lentezza, ma anche la stessa ineluttabilità dell'itinerario del suo straordinario protagonista, nella mistificazione e nell'autodistruzione. Viaggio incessante, come il suo procedere solitario nell'automobile, spazio sospeso nel tempo, contenuto a sua volta in un altro spazio. Quello di un paesaggio dell'anima nel quale il destino sprofonda, dal malessere iniziale ad un finale che gli autori hanno voluto forse più ottimistico, comunque diverso da quello della cronaca.

Uno dei due Leoni d'Oro di Venezia 2001.


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