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FINO A PROVA CONTRARIA
(TRUE CRIME)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 6 maggio 1999
 
di Clint Eastwood, con C.E., Isaiha Washington, James Woods (Stati Uniti, 1999)
 
Colui che per molti rappresenta l'ultimo dei grandi maestri ancora in circolazione ad Hollywood continua la sua rivisitazione dei generi che l'hanno fatta grande: dopo il western ed il poliziesco, al melodramma ed al film del Sud, eccone fondersene un terzo, il film - prigione sul condannato a morte. La vicenda è più che semplice: ad un vecchio giornalista alla deriva, ex-alcolizzato, pessimo marito, padre mediocre e seduttore a suo modo di vedere ancora irresistibile viene assegnato l'incarico d'intervistare un condannato a morte. Manco a dirlo nero, in quella cupa cittadina di Oakland dalle parti di San Quentin che, guarda caso, Eastwood conosce assai bene per avervi trascorso le vacanze da ragazzino. Pochi secondi gli basteranno per convincersi dell'innocenza del poveretto; poche ore, per tentare d'interrompere il tragico, e perverso rituale. Oltre che salvare quel che resta del matrimonio e dei rapporti coi colleghi; piuttosto compromessi da un'attività extraconiugale situata al limite della provocazione oltre che di un non indifferente compiacimento narcisistico.

Ma tant'è. Ciò che importa è che siamo indubbiamente delle parti che ci hanno offerto (da GLI SPIETATI a I PONTI DI MADISON, a un MONDO PERFETTO) tutta una serie di lucidi e commoventi capolavori. E che questo eroe anti- piuttosto malandato (gli riesce pure di decapitare una sigaretta fresca, mentre richiude il suo zippo; oltre che rovesciare la carrozzina sulla quale fa transitare precipitosamente la figlioletta allo zoo) entri a far parte di una galleria ormai celebre: quella di un attore che si è dedicato - da regista - a beffeggiare non solo il proprio mito (e con lui certe convenzioni hollywoodiane sulle quali si era costruito) ma a distruggersi addirittura fisicamente.

TRUE CRIME si costruisce allora come a compartimenti stagni, che il regista organizza, spesso ricorrendo al montaggio parallelo, con ordine ed efficacia. Da un lato le terribili sequenze girate all'interno della prigione. Certo melodrammatiche (l'innocenza evidente del sereno, umanissimo condannato, l'infame tortura alla famiglia, fin le reazioni di uno che ci ha fatto il callo come il direttore della prigione sono cosi trasparenti da rendere il tutto quasi drammaticamente ovvio), ma girate con una rigore ed una umanità estrema: cosi da tornare a farci chiedere (e speriamo che fosse uno degli scopi de film) come i gendarmi che sappiamo del mondo che ci circonda possano permettersi la barbarie infame di un rito del genere.

Dall'altro lato, Eastwood filma un'altra scadenza, quella di un altro condannato a vivere sé stesso. È l'altro tema del suo cinema: la propria impotenza, malinconia, amarezza, rabbia. L'ambiguità del personaggio che trasgredisce all'ordine, perché considera che questo sia l'unico mezzo per venire a capo dell'ingiustizia, della perversione che governa quell'ordine. E la relatività del decidere: fra il bene ed il male, il giusto e l'ingiusto, l'innocente ed il perverso, il generoso ed il meschino. Tutto ciò Eastwood lo filma alternando saggiamente l'emozione all'umorismo (l'incontro con l'atroce arrivismo del cappellano del carcere; oppure con il cinismo allegro del direttore del giornale interpretato da James Woods. Ma pure con un sottolineatura che non appartiene ai suoi momenti più ispirati: che sia in un procedimento auto-ironico e distruttivo che arrischia però l'autocaricatura, o l'artificio (che qualcuno considera voluto, critico e distaccato) di una meccanica piuttosto spiccia.


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