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CIASCUNO CERCA IL SUO GATTO
(CHACUN CHERCHE SON CHAT)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 23 febbraio 1997
 
di Cédric Klapisch, con Garance Clavel, Zinedine Soualem, Renée le Calm (Francia, 1996)
 
Il progetto di CHACUN CHERCHE SON CHAT, il film che precede UN AIR DE FAMILLE apparso solo poche settimane or sono sui nostri schermi, era quello destinato ad un cortometraggio. E si vede.

Budget di produzione modesto, tre settimane e mezza di riprese e, soprattutto, un'idea che non era destinata a sostenere la durata di un lungometraggio. È quella di Chloé che parte in vacanza, e fatica a trovare che si occupi di Gris-Gris. Riuscirà a sistemarlo da Madame Renée (la figura più vivace di tutto il film), che di gatti ne ha già una mezza dozzina nel suo appartamento sotto i tetti. Ma, al suo ritorno, sgradevole sorpresa: Gris-Gris è scomparso. E tutto il quartiere (che è quello, esattamente delimitato, immediatamente dietro Piazza della Bastiglia) si premurerà di darle un mano nelle ricerche.

Filo conduttore simpatico, quanto un po' esile. Che si appoggia intelligentemente sulla figura delicata e quasi eterea interpretata da Garance Clavel. Ma, soprattutto, sull'infinità di personaggi (in parte attori professionisti, altri semplici comparse improvvisate, il più passanti che si ritrovano nell'inquadratura della cinepresa) che le stanno attorno, e che compongono il quotidiano di un quartiere parigino: geografia dei luoghi (un quartiere in demolizione, per dar spazio ai nuovi venuti dell'espansione economica), dei tempi (nell'aria l'eco dell'elezione di Jacques Chirac alla presidenza della Repubblica) e soprattutto dei sentimenti. Solitudini nell'intensità di una metropoli: vecchie signore che s'attaccano al telefono per annunciare di aver forse intravisto il gattino. Ma, in effetti, per aver qualcuno con cui scambiare due parole.

CHACUN CHERCHE SON CHAT ha però anche un altro significato: quello che ognuno è alla ricerca di amore. E che, ovviamente, fatica a trovarlo. Duplicità che va ben oltre il gioco di parole. E che, in effetti, trascorsa la prima mezzora, decuplica la forza, l'ispirazione e l'interesse del film.

Nello schemino gradevole che permetteva a Cédric Klapisch di dipingerci in toni agro-dolci la tipologia umana di un quartiere, irrompe improvvisamente la fisicità del desiderio, l'esigenza dei sentimenti. Chloé, che fa l'assistente-truccatrice da una stilista di moda (dipinta con arguzia dall'autore, come d'altronde tutta la coorte di personaggi) si accorge di essere altrettanto sola di coloro che la circondano: e che non sarà sufficiente truccarsi un po' di più del solito per recarsi in discoteca, e nemmeno buttarsi nelle braccia del bel batterista del piano di sotto, per risolvere il problema. È qui che Klapisch dimostra di possedere qualcosa in più dell'occhio vivace del documentarista, o del piccolo inventore di trame quotidiane: il pudore per entrare nell'intimo di una psicologia, la sensibilità per cogliere a fior di pelle la mutazione dell'animo umano. Ed il film cresce cosi man mano che si avvicina alla sua conclusione: quasi inavvertitamente, quasi suo malgrado, la fiducia nel prossimo (o piuttosto - per definirlo in termini più cinematografici - nella solidarietà, nell'intimità con un ambiente) apre alla protagonista la prospettiva di un avvenire finalmente più accettabile.

Non si tratta di una soluzione banalmente consolatoria. Ma di una visione poetica che viene improvvisamente ad aggiungersi all'osservazione realistica. Che, sul primo piano della protagonista che si illumina di una nuova consapevolezza, nella sua lunga rincorsa finalmente serena ripresa in una lunga carrellata fra la folla, aggiunge una dimensione altrimenti emozionante e preziosa al film.


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