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CLOCKERS
(CLOCKERS)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 28 aprile 1996
 
di Spike Lee, con Harvey Keitel, John Turturro, Mekhi Phifer, Delroy Lindo (Stati Uniti, 1995)
 
Dopo l'epoca della provocazione intransigente a colpi di musiche, ritmi, gestualità, rabbie ed ironie tipiche della sua cultura (DO THE RIGHT THING, JUNGLE FEVER), dopo quella della somma politica ambiziosa ed impegnata, quanto pericolosamente vicina all'accademismo (MALCOLM X), ecco che nella carriera dell'ancora giovane, brillante e fluttuante cineasta black sembra già delinearsene una terza. Quella di una relativa riflessione, quella che sembra costruirsi su una rischiosa, ma al tempo stesso stimolante particolarità: la contraddizione. Che può anche significare lucidità: se destinata a sviscerarne le cause.

CLOCKERS è infatti un film contraddittorio, proprio come Strike, il suo protagonista: tragicomico pupazzo moderno vestito d'immense tenute basket alla moda, Strike che piazza il crack per conto dei soliti trafficanti feroci ed onnipotenti, ma che cerca di evitare al ragazzino che s'identifica in lui di seguire il suo stesso cammino. Strike che fa eseguire il crimine dal fratello-buono Victor, ma che finisce per pagare il conto più salato. Strike che sputa sangue e vende la morte, ma passeggia eternamente con la bottiglietta d'ovomaltina alle labbra, e si compra i trenini elettrici con i soldi messi da parte come sappiamo.

Altri padri, altre contraddizioni dal lato apposto: quello dell'immenso Harvey Keitel nei panni del poliziotto ebreo e testardo, che non rifiuta l'espediente più ambiguo pur di far saltare i nervi al negretto. E John Turturro, il compare-flic italiano, che si limita a fare dello spirito su una contabilità sempre più atroce della violenza. Emblemi furibondi e sconsolati della legge confrontati ai burattini patetici del vizio e, soprattutto dell'emarginazione sociale: uniti dalle medesime esitazioni, dalle identiche convinzioni che fanno si che lo spettatore s'identifichi ora all'una, ora all'altra parte.

Spike Lee ha insomma ereditato una sceneggiatura scritta da uno scrittore altamente documentato sull'argomento: quel Richard Price dal quale il cinema ha spesso preso a prestito (da SEA OF LOVE a KISS OF DEATH o MAD DOG AND GLORY) la precisione dell'analisi sociale, i rapporti di forza fra le forze dell'ordine e quella della malavita, le contraddizioni psicologiche all'interno di queste dinamiche. Ma di questa storia (che avrebbe dovuto girare Scorsese, incentrandola allora su de Niro nei panni del poliziotto sbrigativo) dei "soliti" ghetti neri confrontati alla solita catena di rassegnazione, sopraffazione e disperazione, Lee ha spostato la mira sul piccolo dealer Strike: facendone un'opera tutta sua. Nel bene e nel male.

Nel bene, perché Spike Lee è stato capace di sviluppare ulteriormente la sua tipica costruzione urbana, quel suo inimitabile teatro "della strada": dove, a cominciare dall'indiavolato FAI LA COSA GIUSTA si confondono brutalità realistica e provocazione musicale, Pur ereditando gli schemi tipici del film criminale, Lee riesce a piegarli al proprio volere: che è quello di relativizzarne (qualcuno dirà annacquarne) gli estremi, di avvicinare alla violenza più tragica (in certe sequenze giustificatamente insostenibile) l'interrogazione provocata dall'umorismo nero, dallo sguardo quasi coreografico sull'ambiente.Per il desiderio di sfuggire da quegli schemi che sono anche quelli delle conclusioni ineluttabili, per sfociare in una sorta di happy end che (pur se non del tutto convincente) testimonia pur sempre di un desiderio di cambiamento. Di disturbo: nei confronti di chi si aspettava le conclusioni solite del thriller.

Direttore d'attori sempre più magistrale (da Keitel al giovane Phifer, alle comparse prese documentaristicamente dal mondo autentico dei consumatori di crack) Lee riesce a trasmettere l'idea di una filiazione: quella da causa ad effetto, dalla certezza al dubbio, da una meccanica ben oliata ed intangibile (che il regista espone sul marciapiede, fuggendo l'intimità rassicurante delle abitazioni) ad un'ipotesi di riscatto che risulta per certi versi inedita.Ed ai confini della forzatura.

Poiché è pur vero che non tutto funziona alla perfezione in CLOCKERS: da uno stile a tratti quasi enfatico, sovra espresso, illuminato e musicato che denuncia le preoccupazioni eccessive di Lee nell'introdurre, quindi concludere ad effetto ogni sequenza. Alla costruzione troppo lunga, non sempre essenziale, dimentica della progressione drammatica del film. Al contrasto fra dei toni talora decorativi e la durezza dei fatti, la volontà di non nascondersi dietro la realtà. Sono delle incertezze che rendono a tratti discutibile il film, che gli fanno gommare in eccesso alcuni elementi essenziali del discorso di Price (le differenze di casta fra i neri, ad esempio), e che hanno condotto l'opera ad un relativo insuccesso critico e commerciale. Oltre che pericolosamente minato quella parte finale - alla quale Lee teneva certamente molto - rendendola pericolosamente vicina al moralismo.

Ma è proprio da questi contrasti che il film trae la propria forza: e che riesce a mettere l'energia della propria generosità al servizio di un discorso che per essere indubitabilmente utile non rifiuta di essere pure dilettevole.


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