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CHARLOT
(CHAPLIN)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 24 marzo 1993
 
di Richard Attenborough, con Robert Downey Jr., Anthony Hopkins, Géraldine Chaplin, Kevin Kline, Dan Aykroyd (Stati Uniti, 1993)
"Quale miglior affare di una buona storia, di una storia "vera"?

Hollywood, che di affari se ne è sempre intesa, non a caso ha sempre privilegiato la Biografia (tre in questo momento; oltre a questa di Chaplin, quella sul sindacalista di HOFFA, firmata da Danny de Vito, e MALCOLM X, di Spike Lee): investimento garantito in un destino d'oro massiccio, in tutto conforme ai principi del Sogno americano. Non una "qualsiasi" biografia, ovviamente. In un dettagliato e divertente articolo, Henri Behar ha cercato di recensirle per Le Monde. La gente di colore era praticamente eliminata in partenza, e così gli individui problematici o, meglio, censurabili: divorziati, adulteri, deviati sessualmente. Alla gente comune, meglio comunque l'élite. Dal 1927 al 1940 si tratta di una élite convenzionale: 12 film su re o regine, 10 su politici, qualche scienziato ed inventore. Dopo il 1941, largo ai saltimbanchi: 25% dei film dell'epoca sono loro consacrati. Poi, a cominciare dal pugile Henry Armstrong, gli atleti. Si passa dagli idoli della "produzione" (capitani d'industria, militari, inventori) agli idoli del "consumo". Poche donne, 25% appena, 31% se includiamo le coppie genere Fred Astaire e Ginger Rogers. Soggetti preferiti: un artista affetto da male incurabile, oppure afflitto dai soprusi dei produttori. Minoranze etniche, praticamente assenti: 12 film in tutto, dal 1927 al 60, compresi Joe Louis, Toro Seduto e Viva Zapata. Mai un nero, che non fosse un atleta o qualcuno del mondo dello spettacolo.

La scelta degli attori denotava un eclettismo stupefacente: George Arliss incarnava Disraeli, Voltaire, Rotschild, Richelieu. Prima di SCARFACE, Paul Muni aveva impersonato Pasteur, Zola, Liszt e Chopin. James Stewart, l'aviatore Lindbergh ed il jazzista Glenn Miller. In quanto ai luoghi, la Russia era presa in considerazione soltanto per il periodo pre-rivoluzionario: ninfomania di Caterina la Grande (Marlène Dietrich), tragico destino dei Romanoff, vita illustrata dei vari Tchaikovsky e Rimsky Korsakov. Poco Terzo Mondo, se non nelle storie bibliche. Il Congo o il Siam non sono mai il luogo di nascita dei protagonisti: al massimo, il luogo dove eserciteranno il loro talento, commercio, suscitando l'entusiasmo degli indigeni...

Tutto per questo per dire della frase che Richard Attenborough metteva nei titoli di testa del suo GANDHI: "È impossibile, in un solo racconto, racchiudere la vita di un uomo". Per aggiungere sovente: "Ciò che può essere fatto, è essere fedeli ai fatti riconosciuti: e tentare di costruirsi un cammino fino al cuore dell'uomo". Esattamente il contrario di ciò che capita nel suo CHAPLIN. Che inizia con Anthony Hopkins, mortificato nel ruolo di un intervistatore, mentre nella villa sopra il lago Lemano tenta di far ricordare l'incanutito attore: infanzia ed adolescenza miserabile nella Londra dickensoniana, apprendistato del music-hall dapprima, ed in America dell'arte della commedia con Mack Sennett poi, amori e scandali con vere e presunte vergini minorenni, risveglio di una coscienza sociale e politica, persecuzione da parte dell'FBI, di Hoover, e del maccartismo, esilio dorato, e ritorno all'età di 83 anni per l'Oscar della buona coscienza hollywoodiana. Per qualcuno che sostiene che non occorre raccontare tutto...

Ma Chaplin - quasi ce ne dimenticavamo, e non a caso - non era soltanto l'uomo appassionato, generoso, calcolatore o cinico (i silenzi di Vevey...) che Attenborough (salvato - per sua fortuna - da uno straordinario, mimetico, finalmente intraducibile, e quindi umano, Robert Downey) si affanna ad illustrare per due ore e mezza. Chaplin era Charlot: l'artista totale, il simbolo nel quale mezzo secolo si sarebbe riconosciuto. Il gigante geniale e contraddittorio: un dibattito, tuttora inconcluso, sul comico meno poetico di Buster Keaton, meno sovversivo dei fratelli Marx, meno sottile di Leo Mc Carey, meno simpatico di Laurel e Hardy, meno perfetto di Langdon,Fields o Harold Lloyd, ma che ha influenzato tutti i posteri. La storia del cinema è piena di comici brillanti: ma ha prodotto un solo Chaplin...

E sul cineasta, proverbialmente esitante, restio ad utilizzare gli sfondi e l'ambiente, ad innovare nel timore di perdere di vista il proprio ruolo d'attore, a rifugiarsi nel patetismo: ma capace pur sempre di farlo (MR.VERDOUX), o di riversare nel proprio inimitabile personaggio tutta la carica dei significati (CITY LIGHTS), o ancora di trovare la folgorazione del discorso che permette di fondere l'intuizione formale all'intervento nel suo Tempo (IL GRANDE DITTATORE). Ecco colui verso il quale occorreva "scavarsi un cammino, per giungere al cuore"...

Che parli dell'Uomo, che ignori l'Artista (i soli momenti del film che penetrino per un istante nella gioia, e nel mistero della creazione chapliniana sono quelli delle sequenze estratte dalle pellicole originali, proiettate prima della consegna dell'Oscar...) Attenborough si comporta da quel che è: un buon accademico. Riesce ad illustrare (gli inizi, con la brava Géraldine nel ruolo della madre, il viaggio, l'incontro con Hollywood), mai a comprendere, a spiegare, tanto meno ad indagare. Non sulle ragioni dell'ignobile comportamento dell'America nei confronti di Chaplin: figuriamoci se su quelle (infinitamente più misteriose, preziose e quindi rivelatrici) che riguardano i segreti della sua arte."


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