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IL SOCIO
(THE FIRM)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 30 ottobre 1993
 
di Sydney Pollack, con Tom Cruise, Gene Hackman, Jeanne Tripplehorne, Holly Hunter (Stati Uniti, 1993)
 
Fresco di laurea, faccia pulita e ciuffo tagliato in modo da sembrare ribelle, Tom Cruise attende che si faccia vivo il Miracolo come di dovere. E, difatti eccolo apparire sotto le vesti dello studio notarile Bendini, Lambert & Locke: "solo" 45 associati a Memphis, 95mila dollari mensili perché iniziali, villetta arredata (oscenamente, ma a caval donato), Mercedes sotto il portico con le rose, chiavi in tasca e (solo Tom Cruise poteva immaginare che fosse solo per i suoi begl'occhi) qualcosa che puzza dietro l'angolo di moquette e marmo. Bendini e compagnia largheggiano grazie alla Mafia; e tutti coloro che hanno cercato di andarsene sono rimaste vittima dei soliti incidenti.

Gli eroi di Sidney Pollack, lo sappiamo dai bei tempi di JEREMIAH JOHNSON e di COM'ERAVAMO, gli assomigliano: appartengono ad un'altra epoca, sono dei disertori del proprio tempo. Costretti a prendere posizione, finiscono per accorgersi ben presto quanto difficile sia rifiutare la realtà del mondo nel quale vivono. Un cinema mitico, firmato dall'ultimo dei grandi romantici hollywoodiani: per questo - nei suoi momenti migliori, quello di JEREMIAH, di NON SI UCCIDONO COSI ANCHE I CAVALLI, ma anche di LA MIA AFRICA - Pollack ha bisogno di datare nel tempo i propri racconti, d'inserirli in un contesto eterno, preferibilmente naturale. Solo in quelle condizioni, il suo discorso riesce a svilupparsi pienamente: l'uomo deve poter vivere in armonia con il proprio ambiente. Una volta entrato in conflitto con esso, una volta constata la degradazione di quel rapporto egli è costretto a superare sé stesso, a sublimarsi, a raggiungere una specie di ascesi, per poter sopravvivere.

È quanto accade al nostro Tom Cruise. Solo contro tutti, non solo la Mafia, ma pure l'Ordine degli avvocati che egli non vuole tradire, la moglie e gli amici, il suo diventa una specie di viaggio iniziatico, di crociata nel regno del male e delle tenebre, tentato non solo dai démoni della società dei consumi, ma pure dalle sirene che si aggirano per le spiagge dei paesi tropicali (alias paradisi fiscali) visitati dagli yuppies. Sarà allora costretto alla lotta (lui nato per il doppiopetto) ed alla fuga (altro elemento caro all'itinerario mitologico): ma finirà ricompensato da una sorta di immunità soprannaturale (nei confronti della diabolica mafia, qui rappresentata da due bonaccioni più che disposti a concederla).

Tre anni dopo l'insuccesso di HAVANA, Sidney Pollack non se l'è probabilmente sentita di osare più di tanto: è tornato all'ambiente contemporaneo, quello di TRE GIORNI DEL CONDOR, che gli permette la denuncia più facile dei mali attuali. La corruzione dei costumi: assai più facile da far digerire agli spettatori di quella più sottile degli animi. Autore celebrato per la "fisicità" del proprio stile, Pollack ha però bisogno di poterla esternare: e ci riesce quando inserisce le sue storie (spesso un po' ingenue, proprio perché romantiche) nella natura. Allora quando filma come Flaherty la terra ed il fuoco, l'acqua, le stagioni, l'alba o i tramonti, solo allora gli riesce quel contrasto con l'integrità morale e psicologica dei suoi personaggi.

In THE FIRM filma (assai bene) gli oggetti che si ritrova: quelli di consumo, quelli di trasporto e, sopratutto, di comunicazione. I telefoni, i fax, i computer. Ed i segni del viaggio nel malessere: il disegno dei piccoli allievi della moglie che si trasforma nell'itinerario da Boston a Memphis, la frustata sui pantaloni dello zampillo che innaffia il tappeto verde, l'esotismo ambiguo dei Caraibi. I personaggi secondari non sono privi d'originalità: Gene Hackman, l'avvocato diabolico ma che rivela debolezze più umane, Holly Hunter (proprio lei, direttamente da LA LEZIONE DI PIANO) come segretaria dell'investigatore assai più abile di tutto l'FBI messo assieme. Ma la sceneggiatura è troppo densa, ai limiti della comprensione o, allora, dell'ovvietà.

E Tom Cruise assomiglia sopratutto a sé stesso: una faccia sulla quale ci si è giocati qualche decina di milioni di dollari. E che non è proprio il caso di mandare in vacca.


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