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FRAGOLA E CIOCCOLATO
(FRESA Y CHOCOLATE)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 17 gennaio 1995
 
di Tomas Gutierrez Alea, con Vladimir Cruz, Jorge Perugorria (Cuba - Messico, 1993)
"Diego sceglie un gelato alla fragola, David al cioccolato: un sintomo che, perlomeno a Cuba, non inganna nessuno.

Diego, che si è seduto al tavolo di David con intenzioni - viste le sue mossette - certamente inequivocabili, dice pure che "il gelato è la sola cosa decente che si faccia in questo Paese". Ma quando sappiamo che Diego non è come lui (lo abbiamo appena visto tentare, con desiderio e realismo, di portare e letto la ragazza della quale è innamorato), quando ci accorgiamo di trovarci all'Avana del 1979, quando eventualmente ci ricordiamo che Tomas Gutierrez Alea (detto affettuosamente Titòn) è una sorta di monumento nazionale per i suoi compatrioti, ma rimasto comunque sempre al fianco di Fidel Castro che gli aveva affidato alla caduta di Batista l'Istituto nazionale del Cinema, quando osserviamo infine che le riprese sono avvenute nel Messico... sappiamo già che FRAGOLA E CIOCCOLATA non sarà un'ennesima variazione de IL VIZIETTO.

Artista, Diego appartiene ad una categoria se possibile ancora peggiore: quella degli omosessuali. David è invece uno studente squattrinato: militante comunista, come si deve in quegli anni, ma non necessariamente lobotomizzato. E poiché - lo abbiamo visto - FRAGOLA E CIOCCOLATA non è un film sull'omosessualità, non potrà allora che esserlo sulla diversità. E, quindi, sull'intolleranza.

Con una scusa, Diego trascina il riluttante David a casa sua. Ma alla sessualità, al desiderio del padrone di casa, così come alla diffidenza, alla vergogna, all'ostilità del potenziale delatore (come doveva essere, in quel genere di casi, ogni ligio marxista) si sostituisce progressivamente qualcosa di differente. È un tema non inedito (si pensi a UNA GIORNATA PARTICOLARE di Scola, a certi Visconti o all'associazione fra Losey e Pinter), ma che il sessantacinquenne maestro cubano sviluppa con una sensibilità (e qualche incertezza) tutta sua.

Lo vediamo sin dalla prime scene: Gutierrez predilige i tempi lunghi, quelli che gli permettono di lasciar respirare i suoi attori, e di cavare dagli istanti, dalle situazioni tutto ciò che vi è da spremere. Ai suoi attori è subito affettuosamente vicino, quasi rifiutandosi di giudicarli, quasi trascinato dall'impercettibile progressione della vicenda a doverne verificare i destini e le inesorabili mutazioni. Li lascia discutere, certo di quella forza affascinante della dialettica, che permette di mutare il desiderio di Diego in constatazione accorata della propria emarginazione; e il marxismo semplicistico di David in desiderio di trasformare uno sterile - oltre che spietato - confronto in un esaltante, oltre che generoso appetito di comprensione.

Come nel cinema non solamente imposto da una sceneggiatura, quello di Gutierrez si alimenta di ciò che gli sta attorno, stabilendo con l'ambiente una sorta di complicità, d'interdipendenza di significati che, poco a poco, rimette ogni cosa al suo giusto posto. Sono dapprima gli oggetti, i libri, i colori, i suoni che riempiono la casa anticonformista dell'artista (che Jorge Perugorria, senza rifiutare coraggiosamente nessuna di quelle accentuazioni mimiche che potrebbero trasformare il proprio personaggio in risaputa macchietta, interpreta al contrario con misura straordinaria) ad accompagnare l'evoluzione dei personaggi. E poi la città tutta, con i suoi resti, l'umanità che trasuda dagli echi che ci giungono, gli squarci brevi ma significativi che si scoprono dietro l'azione.

In una progressione che avrebbe anche potuto essere manicheista, Gutierrez sceglie intelligentemente la strada della sfumatura, di quella ambivalenza che rimette in questione le psicologie dei personaggi (aiutato dal gioco squisitamente possibilista degli attori), che rende la sua indignata enunciazione politica così vicina alla relatività della vita. Certo, soprattutto nella seconda parte il film si dilunga (nelle situazioni, come negli effetti registici) in qualche sentimentalismo di troppo: ma pure il modo con il quale conclude la vicenda (senza clamori grandguignoleschi, ma con l'esilio ineluttabile, geografico e morale) testimonia della giustezza di un'opera al tempo stesso quotidiana e diversa.

Un successo, quello di FRAGOLE E CIOCCOLATA che non sorprende: anche il pubblico può averne abbastanza di sparatorie o commediole cosiddette ben rodate."


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