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AMORI E AMICIZIE
(PASSION FISH)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 9 giugno 1993
 
di John Sayles, con Mary Mc Donnell, Alfre Woodard, Angela Bassett (Stati Uniti, 1992)
Nota attrice di serial televisivi si ritrova improvvisamente in un letto d'ospedale con le gambe paralizzate. Uno stupido incidente stradale, e la sua vita è stravolta: la fatica di una rieducazione che si avvera laboriosa, l'angoscia crescente per la giovinezza, la bellezza, il successo perduti. Il vuoto: a May-Alice non rimane che ritornare - o, piuttosto, andare a rintanarsi - nella vecchia casa di famiglia della Lousiana. Sola, con il telecomando ("il mio cordone ombelicale") e la bottiglia: cupa, irascibile e suicidaria, eternamente alle prese con le infermiere che si succedono al suo capezzale e, regolarmente, la mollano. Fino alla comparsa di Chantelle. Che è nera, arriva da Chicago, ed è tutto il contrario di May-Alice: tanto questa è evidente, eccessiva ed estroversa - come si conviene ad un'attrice - quanto Chantelle è segreta, misurata, e rinchiusa in sé stessa. In un segreto, in una sofferenza che sapremo essere non da meno di quella di May-Alice.

Le due donne finiranno per fondersi, comprendersi, aiutarsi. PASSION FISH è infatti un melodramma, e come ogni melodramma non può che risolversi, se non bene, perlomeno positivamente. Come tutti i melodrammi che hanno fatto grande il cinema (come quelli di Douglas Sirk, ai quali si pensa sovente, forse per il tema dell'amicizia fra due donne marcate da una disgrazia fisica), PASSION FISH si costruisce su una storia banale: di quelle che a raccontarle con i tempi della tivù in diretta fanno fuggire a gambe levate.

Eppure - proprio come succedeva con il film precedente di John Sayles - una volta ancora il cinema esalta per come riesce a stravolgere le apparenze: si significa per come è raccontato, e non certo per cosa racconta. Se CITY OF HOPE, da banale poliziesco, si mutava in lucido spaccato sociale, in affresco alla Altman, ecco che ora PASSION FISH inizia come un risaputo documento sulla rieducazione, continua come faccia a faccia intimista tra due personaggi che si scontrano prima di capirsi; ma finisce per allargarsi a macchia d'olio, su una pluralità di personaggi. Fino ad assumere l'aspetto di una luminosa riflessione, matura e sensibile, su artificio e realtà.

Il melodramma è puro artificio: se pensiamo ai film di Minnelli, di Sirk o, più recentemente, di Fassbinder la prima immagine che affiora dalla memoria è quella del falso, del posticcio. Dei caratteri risaputi, degli archetipi di comportamento ben precisi che vengono introdotti in un mondo, in uno sfondo altrettanto artificiale: fondali di cartapesta, colori sopra le righe, costumi stranianti, atmosfere d'epoca o fuori dal tempo, musiche debordanti pathos. La modernità di John Sayles viene dal fatto che egli utilizza i medesimi elementi: ma li introduce in un universo naturalistico, perfettamente fisico, contemporaneo. In un quadro del genere la satira si muta in partecipazione emotiva: e lo spettatore, condotto per mano dal regista, è invitato ad abbondonarsi al piacere di seguire un racconto. Banale, ma affascinante: perché composto con grande semplicità (la scelta delle inquadrature, la direzione degli attori, il montaggio), con logica inappuntabile. Cosi, gli artefici tipici del melodramma non vengono mai a scontrarsi - come si potrebbe temere - con la verità dell'ambiente, il modo di svolgere la successione degli avvenimenti.

È il segreto di un cinema che crede fermamente nel proprio potere, nella forza delle immagini, quando queste traducono onestamente una Storia ispirata. È il segreto da sempre, non è certo una novità, del grande cinema americano.


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