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AMERICANI
(GLENGARRY GLEN ROSS)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 1 febbraio 1992
 
di James Foley, con Jack Lemmon, Al Pacino, Ed Harris, Alec Baldwin, Alan Arkin, Kevin Spacey (Stati Uniti, 1992)
 
"Drammaturgo e sceneggiatore collaudato da tempo (Il postino suona sempre due volte di Bob Rafelson, Il verdetto di Sidney Lumet, Gli intoccabili di Brian de Palma), acuto cineasta (LE COSE CAMBIANO, HOMICIDE) David Mamet predilige i soggetti nei quali il protagonista è tentato, talvolta tradito, da un azzardo, da un salto nel buio: come stupirsi se questa sua pièce, che si trascinava nel cassetto da una decina d'anni, abbia tentato James Foley. Di lui conosciamo poco in Europa, e soprattutto le opere di comanda (WHOSE THAT GIRL, con Madonna...): ma AT CLOSE RANGE e AFTER DARK rivelavano un grandissimo talento. Soprattutto un senso straordinario del ritmo, la capacità di tradurre in scansioni cinematografiche l'urgenza interiore che incalza i personaggi.

È ciò che succede, con splendida efficacia, in GLENGARRY: tipico film che, una volta, si sarebbe definito riduttivamente di "teatro filmato". Un termine che non significa un bel niente: quando il cinema si riappropria della dimensione teatrale ma la rielabora, la dinamizza, la ricrea negli spazi, nelle strutture, con gli attributi che gli sono propri, allora questa diventa cinema, buono o cattivo, ma cinema.

Nulla di più teatrale della situazione di GLENGARRY; in due spazi spaventosamente circoscritti (un'agenzia immobiliare, schiacciata al pianterreno ; un ristorante cinese dall'insegna malridotta, sull'altro lato della strada) quattro venditori a percentuale di terreni speculativi si dibattono disperatamente. Costretti a rifilare entro poche ore - per non essere licenziati da inesorabili quanto corrotti capo uffici - qualche parcella di terreno ad altri poveracci che si lasceranno abbindolare. Come in un giallo urbano (altra caratteristica di Foley), come in in quadro di Hopper illividito dai neon rossi e blu, sotto una pioggia scrosciante che, al massimo, permetterà di ritrovarsi imprigionati all'interno di un tassì, i personaggi si dibattono disperatamente, si affrontano in un duello verbale senza tregua, alla ricerca disperata di una via d'uscita che sappiamo impossibile.

Gli attori sono formidabili: e il film si organizza sulla loro logorroica agitazione, affogata negli spazi implacabilmente stilizzati, dettata da quel ritmo che sentiamo salire angosciosamente scandito dall'esigenza interna dei personaggi e che la splendida colonna musicale (firmata da Wayne Shorter) concorre ad amplificare. Dei dialoghi quasi astratti ("perché mi denunci? Perché non mi sei mai stato simpatico..."), poetici, filosofici, si scontrano con uno spazio teatrale. Ed una situazione, una recitazione drammaticamente realistica.

In queste condizioni, la tensione si fa insopportabile: ed il dramma crudele delle quattro vittime impotenti assume la constatazione di una tragedia sociale ed esistenziale: "la libertà di un individuo nasce dalla convinzione di potersi modellare il proprio universo: senza di ciò' diventiamo delle semplici pedine di un sistema che ci sommerge".

Super venditore in fase di comprensibile stanca, Jack Lemmon dovrà infrangere la legge - pubblica e privata - per tentare di sopravvivere: da cronaca della minuta miseria umana, GLENGARRY si fa allora denuncia spietata del sistema più ampio (vogliamo chiamarlo capitalistico) che la contiene. Quello di una costrizione inesorabile che condanna l'individuo non solo a piegarsi alle sue leggi: ma ad assumere la sua stessa aggressività, corruzione, e perversione ."


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