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BENVENUTI IN PARADISO
(COME SEE THE PARADISE)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 20 maggio 1990
 
di Alan Parker, con Dennis Quaid (Stati Uniti, 1990)
 
Alan Parker
Il cinema, come quell'inferno che l'Alan Parker del periodo pre-angelico (MIDNIGHT EXPRESS, THE WALL e quel BIRDY che rimane la sua opera più convincente) si dilettava a dipingere, è lastricato di buone intenzioni. Quelle di COME SEE THE PARADISE, cosi come ci appaiono dalle prime, serie e professionali sequenze del film, sono esemplari: mostrare una realtà poco conosciuta, quella degli ambienti giapponesi di Los Angeles negli anni Quaranta. Dipingerla con attenzione documentata, con affetto per dei personaggi di cui ignoravamo l'esistenza.

Uno dei meriti di Parker è sempre stato quello di fiutare l'aria dei tempi. Qui, addirittura, la precorre: ricordando ai posteri quel fattaccio che, sei mesi dopo l'uscita del film, nientemeno che Saddam Hussein tenta di contrapporre al mondo che gli rimprovera il ricorso agli ostaggi... Nel film infatti, la famiglia che fa corona alla giapponesina della seconda generazione sposata da Dennis Quaid, sindacalista d'estrema sinistra e d'origine irlandese, è sconvolta da un atto firmato da Roosevelt nel 1942: quello che obbliga tutti i giapponesi, anche quelli naturalizzati e nati in USA, ad essere internati in campi di concentramento!

Come dire l'ignoranza prima, la crudeltà poi: per accorgersi con molta calma del misfatto, ed emendare la legge qualche anno dopo.

Ai tempi di MIDNIGHT EXPRESS il regista non ci avrebbe pensato due volte: testa bassa, e ve lo spiego a botte. Qui sembra proprio preoccupato a rifarsi una verginità. Ma nella discrezione che ha preso il posto della frenesia, il concetto del regista inglese rimane inalterato: iperbole espressiva, e semplIcismo psicologico. Sul filo di un motivo musicale che uno sciagurato pianoforte riprende almeno cento volte, l'ottimo Dennis Quaid, gli altri attori più che onesti, tutta la coscienza di una documentata testimonianza dei costumi e degli ambienti è trascinata in una sequela di tramonti, distacchi definitivi e riabbracci provvisori. In un sentimentalismo esasperante che non può non diluire tristemente tutto il nerbo dell'assunto.


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