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ALICE
(ALICE)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 2 marzo 1991
 
di Woody Allen, con Mia Farrow, William Hurt, Joe Mantegna, Alec Baldwin, Cybill Shepherd, Judy Davis (Stati Uniti, 1990)
 
Una volta si distinguevano i film di Woody Allen fra quelli comici e quelli drammatici, fra quelli nei quali il piccolo comico appariva in persona, e gli altri nei quali se ne stava nascosto dietro l'occhio della cinepresa.

Oggi, la distinzione non ha più senso: perché quello di Woody Allen è un mondo così particolare, così personale e definito da non necessitare ormai più di alcuna distinzione. Un mondo nel quale lo spettatore entra con una facilità inimitabile: ritrovandosi immediatamente a proprio agio, beato come sui quei lettini da psicanalista che il personaggio Woody prediligeva nei suoi primi film, rassicurato dalle tinte ocra e sfumate dell'operatore Carlo di Palma, dalle melodie jazzy dei suoi sfondi musicali. Un mondo che gli viene così facile, così istintivo da farcelo apparire immutabile di film in film. Quasi ripetitivo: con il rischio di obbligarci a cercare il pelo nell'uovo, a decidere se questa crisi di coscienza femminile di Mia Farrow sia altrettanto profonda di quella della grande Gena Rowlands in Un'altra donna . O se i 109 minuti di Alice (una durata insolitamente lunga per un regista che ha fatto della misura una delle ragioni del proprio successo) siano responsabili per qualche caduta di ritmo, per qualche sottolineatura déjà vu che viene a scalfire la struttura altrimenti impeccabile del film.

Un mondo nel quale nulla avviene per caso, a cominciare dal titolo. Poiché quello di Alice è sinonimo di un universo delle meraviglie nel quale il regista ci ha introdotto da tempo: da Stardust Memories nel quale si compiaceva del fantastico felliniano, a Commedia sexy di una notte di mezz'estate dove appariva per la prima volta quella Mia Farrow poi impostarsi come regolarissima musa ispiratrice, da Zelig a La rosa purpurea del Cairo ed a New York Stories nei quali l'assurdo si faceva clamorosamente quotidiano, le creature della fantasia si mutavano in carne ed ossa, il sogno e la realtà si coniugavano a vicenda in una difficile quanto squisita armonia.

Come tutti i sogni, quelli dei personaggi di Woody Allen nascevano nell'oscurità: quella delle sale cinematografiche, nelle quali l'autore ed i suoi personaggi si rifugiavano in cerca di conforto ed ispirazione. Qui, com'è stato argutamente osservato, è un altro tipo di evasione fantastica che si offre alla protagonista. Ma gli intrugli più o meno biodegradabili del guaritore cinese spediscono pur sempre nel mondo delle referenze cinematografiche: basta ingurgitare una tisana per ritrovarsi ne L'uomo invisibile di James Whale, un'inalazione fumogena per rivedere i fantasmi di Mrs. Muir di Mankiewicz, un filtro d'amore per rendere omaggio al Buster Keaton di Seven Chances e naturalmente una pipata d'oppio per l'infanzia felice del prediletto bergmaniano Il posto delle fragole...

Così, i filtri magici del dottor Yang che permettono all'eroina di Alice di rendersi invisibile, o di levitare in cielo sopra i vertiginosi grattacieli di Manhattan, o ancora di distribuire allucinazioni, innamoramenti e sollazzi vari, non ci sorprendono più di tanto. Anche perché tutte questa fantasie non sono dei semplici trucchi, magari vecchiotti: ma servono al regista per piegare il tempo e lo spazio ai propri voleri, a quella sua libertà espressiva al contrario così moderna, a giungere finalmente ad un'illustrazione compiuta di tutte le psicologie.

Semplicemente, a modo suo (ecco perché è assurdo confrontare la serena gravità di Un'altra donna alla significativa assurdità di Alice), per il cinquantacinquenne Woody Allen è tempo di bilanci: ecco quindi (introdotto dallo straordinario piano-sequenza iniziale che ci condensa la tragicomica giornata della nuovaiorchese Vip alle prese con bambinaie, massaggiatori, decoratrici, marito assente, oltre che ovviamente con le proprie nevrosi estetico-sessuali) quello delle interrogazioni sull'usura della coppia, il tempo che trascorre, le difficoltà della comunicazione, le tentazioni dell'adulterio. Esse si sostituiscono progressivamente (lo si era già notato a partire da September) a quelle dell'omino: bisogno d'affetto, paura della morte ed ovviamente della donna, ricerca di Dio, e via di seguito.

Anche qui, niente di nuovo. Ma una dimensione sociale, solitamente assente dall'universo alleniano: che si sostituisce alla frustrazione ed al tradizionale senso di colpa dell'ebreo nuovaiorchese degli inizi. Meglio, che si aggiunge. Perché in un film fatto tutto di meraviglie, in un gioco d'azzardo nel quale persino Madre Teresa riesce ad entrarci con gli sguardi disperati degli affamati di Calcutta, la più grande di tutte queste meraviglie è di veder trasparire, sotto ogni mossa, ogni replica, ogni sguardo di Mia Farrow, quella dell'occhialuto marito.

Straordinario omaggio di un uomo alla sua donna, di un creatore che offre la propria creatura al prolungamento della propria immaginazione. Commovente gioco di rinvii di un'attrice che tiene la scena ininterrottamente per tutta la durata del film: questo dialogo silenzioso, questo affettuoso scambio di sottintesi, questa compenetrazione quasi fisica fra l'oggetto della realtà e quello della fantasia è l'impronta del sogno che farà ricordare Alice nell'ormai lunga carriera di Woody Allen.


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