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AFFARI SPORCHI
(INTERNAL AFFAIRS)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 25 maggio 1990
 
di Mike Figgis, con Richard Gere, Andy Garcia, Annabella Sciorra, Laurie Metcalf ( (Stati Uniti, 1990)
Mike Figgis, l'avevamo notato segnalando il suo interessante film d'esordio (STORMY MONDAY, girato nell'88 a Newcastle), è uno al quale piace buttarsi: pochi scrupoli sulla sceneggiatura, e dentro fino al collo a sguazzare nella goduria della cinepresa. Vizietto comprensibile, e pericoloso.

Perché succede quel che è successo qui. Che, in seguito al successo sul mercato americano del primo film, il nostro british è invitato a Hollywood. Che gli affidano un altro poliziesco a risvolti sado-maso-mitici o che so io. E che il disordine sconclusionato della sceneggiatura finisce per mandare in vacca anche ciò che d'indubbiamente valido esiste nel talento del nostro (sensibilità a fior di pelle per l'uso degli elementi di ripresa, scelta degli ambienti, ricerca d'intimità coi personaggi).

Le storie - o le guerre come le chiamano oggi - di polizia hanno sedotto molti cineasti: perché permettono, tra le altre cose, di giocare sui rapporti di forza, di sondare le contraddizioni di chi detiene il potere, di chi è costretto a nascondere le proprie umane debolezze dietro l'esigenza di una facciata d'ordine, di rigore o di onestà.

Figgis, l'abbiamo visto, non è uno che ami le mezze misure: ed i suoi due poliziotti (un Richard Gere precocemente appesantito ed ingrigito, un Andy Garcia più latino di ciò che un anglosassone può immaginare di latino) ne fanno di tutti i colori. Diciamo, in breve, che trasportano sul piano della soddisfazione (ergo insoddisfazione) sessuale il potere che deriva dalla loro professione.

Che la storia sia piuttosto incomprensibile (come già capitava in STORMY MONDAY), passi. Ma anche nella ricerca del parossismo, nella scelta della provocazione ci deve essere una struttura portante: succede altrimenti che anche l'aspetto esteriore diventi fine a sé stesso. Che la forma accentui, fino al ridicolo, il disordine del discorso: riprese al rallentatore, flash onirici sovraesposti, ricerca dell'effetto espressivo ad ogni costo. Succede che i vizietti che si vogliono (denunciare?) diventino quelli di un cinema del consumo più sciocco.


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