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AUSTRALIA
(AUSTRALIA)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 13 dicembre 1990
 
di Jean-Jacques Andrien, con Jeremy Irons, Fanny Ardant, Tchéky Karyo, Patrick Bauchau (Belgio - Francia, 1989)
 
Da un lato c'è l'Australia del titolo: immensa, luminosissima, ritagliata come in una pittura di Hopper. E dall'altro il Belgio costretto e nebbioso: ma anche velato d'intimità trasparenti, come nei quadri dei fiamminghi. Tra quei due ambienti, che l'esordiente regista belga sa filmare con estrema sensibilità, viaggia Jeremy Irons: figlio d'industriali lanieri, emigrato in Australia e quindi coinvolto nella guerra delle Filippine (l'azione si svolge negli anni 50), costretto a ritornare al paese natio in seguito alla crisi che minaccia l'industria familiare.

La terra, ed il mestiere. Se Andrien guardasse tutto il resto allo stesso modo, se il film continuasse sui toni sereni, contemplativi, commoventi della prima metà, AUSTRALIA sarebbe un capolavoro. Perché quando un regista riesce ad inserire la sua storia in un contesto adeguato, in un ambiente che giustifichi l'aneddoto, il gioco è già fatto a metà.

E sul filo della lana, è il caso di dirlo, dall'Australia dei montoni e delle balle che i mercanti vengono a tastare, ad annusare, alla vecchia fabbrica in Europa dove il protagonista ritrova il suo elemento trattato dalle macchine tradizionali, alle contrattazioni nella City di Londra dove l'odore del grasso animale si fa alchimia di calcoli più astratti, il film è scandito da quegli umori che appartengono al lavoro dell'uomo. Con tutto ciò di vero e di eterno che esso richiama alla mente dello spettatore.

Ma i temi della sceneggiatura fin troppo complessa di AUSTRALIA (firmata, oltre che dal dialoghista Audiard, da quel Jean Gruault che collaborava con Truffaut, Rivette, o Godard) non si limitano a contrapporre le dimensioni infinite del nuovo mondo in espansione a quelle ridotte del declinante impero industriale europeo. Una volta sbarcato al paesello dell'infanzia il nostro bel Jeremy si trova confrontato, oltre che ai nodi di famiglia, a quelli dapprima melanconici, poi filosofici, poi semplicemente didattici delle riflessioni (il più sovente, ahimè, verbali) sulla Morale. E con Fanny Ardant, dal bel profilo eccessivo, giunge, come non bastasse, la Passione.

La soave lentezza che serviva ad Andrien per raccontarci così bene il tempo del lavoro nelle pieghe del paesaggio, si trasforma allora in impaccio quasi imbarazzante: vedovo lui, con una bimba adorabile che l'attende laggiù, sposa rassegnata alle visite pomeridiane dalla sarta lei, siamo alle solite che il film non meritava. I due, anche bravi, non riescono mai a comunicarci quell'urgenza che ci veniva invece da pianure e colline: e in Australia pare ci si finisca tutti grazie all'happy end.

Fino alla prossima occasione, perché questo Andrien ci sa comunque fare.


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