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DEAR AMERICA - LETTERE DAL VIETNAM
(DEAR AMERICA)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 15 dicembre 1988
 
di Bill Couturie (Stati Uniti, 1988)
 
"L'America non ha ancora chiuso con il Vietnam. E forse non chiuderà mai: poiché ci sono delle piaghe, ancor più dello spirito che della carne, che non vogliono guarire.

Così il cinema non ha sicuramente ancora chiuso con il Vietnam. Ma questo DEAR AMERICA, a modo suo, conclude una parabola. Che potrà semmai essere riproposta, ma non più modificata nelle sua evoluzione, nel suo disegno precisamente interpretabile. Cimino, Coppola, Stone - per non citarne che alcuni - hanno rivoltato gli aspetti espressivi dell'approccio al problema. IL CACCIATORE poneva per la prima volta l'uomo al centro del dramma: il Vietnam usciva dalla mitologia, dalla politica, dalla cronaca di un avvenimento d'oltremare per indagare sulla ferita inflitta all'individuo che aveva vissuto l'avvenimento, ed a coloro che gli stavano vicino.

APOCALYPSE NOW amplificava la visione e la riflessione: geniale organizzatore di spettacoli, Francis Coppola metteva in scena il più tragico degli spettacolo che la patria di Hollywood e di Broadway si fosse mai offerta. E il balletto degli elicotteri, le conigliette di Playboy per i marine nella giungla, il fuoco dei bengala nella notte si trasformavano in un'analisi critica dei valori sui quali poggia un popolo, uno spietato esame di coscienza da parte di un'industria che regge le regole del consumo dell'evasione.

PLATOON, infine, tornava al punto zero: basta con le metafore, con le ambiguità, con i compromessi con le leggi dello sfruttamento cinematografico. Il realismo d'Oliver Stone ci riconduceva alla guerra "come se ci foste stati": il silenzio della giungla, l'attesa di una morte invisibile, incombente, e quindi assurda. Tutto il Vietnam che precede quest'ultima DEAR AMERICA è insomma cinema di finzione: il film di Bill Couturie illustra invece con delle immagini d'archivio, tutte rigorosamente autentiche, l'emozione distillata dalla lettura delle lettere dei soldati dal fronte.

Qual'è la nostra reazione? È, innanzitutto, di continua rimessa in questione: osserviamo delle immagini stranote (gli elicotteri che mitragliano, i barellieri che trasportano, i feriti che gemono, i reduci che guardano nel vuoto) e dobbiamo convincerci che sono vere. Poiché quelle che aveva conosciuto finora - ce ne rendiamo conto soltanto ora _ sono false: esse appartengono al cinema di finzione, la guerra inventata, oppure all'attualità di tipo televisiva (che è ormai altrettanto falsa, in quanto domestica, abitudinaria, sempre meno coinvolgente).

Questo va e vieni, tra l'idea che ci facciamo della finzione e quella della realtà, è la molla dell'emozione di DEAR AMERICA: l'assurdità della follia guerriera non nasce tanto dal contenuto delle lettere (talune banali, alcune lucide, tutte sconvolgenti poiché scelte - lo sappiamo a posteriori _ fra quelle di gente scomparsa il giorno dopo averle scritte), dalle dichiarazione dei politici che s'inseriscono a tratti nel montaggio, o dall'evidenza delle statistiche. Ma dalla scoperta che l'effetto di morire nel Vietnam a vent'anni, e per niente, è quello che ci sta sfilando davanti agli occhi.

Questa convinzione d'autenticità ci accompagna durante tutto il film. Assieme ad un'altra: che ogni pezzo di cinema, di finzione, ma egualmente d'attualità, di documentario, di cinema-verità o come diavolo volete poi chiamarlo, risponde agli imperativi di una volontà di scrittura .

Quegli istanti sospesi, immensamente tragici, durante i quali sullo schermo compaiono i visi disfatti, gli sguardi disperati, non esistono a caso: ma perché, dietro alla cinepresa, c'era uno sguardo pronto a compiere una scelta ed a rappresentarli. Quelle lettere commoventi, l'abbiamo detto, non sono state pescate a caso dal mucchio. E quelle musiche - alcune giustificate, poiché riflesso dei medesimi sentimenti di rivolta, altre più invadenti, e forse soltanto decorative - partecipano ancor più ad un movimento d'organizzazione.

Tutto ciò per dire che DEAR AMERICA è un film - ci mancherebbe - indispensabile, encomiabile e commovente. Ma non rappresenta - poiché questa non esiste malgrado le asserzione degli autori - l'affermazione della verità espressiva assoluta nei confronti dell'interpretazione personale. Il falso può essere vero; esattamente come il vero può condurre al falso.

Se DEAR AMERICA è cinema di finzione, poiché di messa in scena, allora non è certamente superiore ad APOCALYPSE NOW. Se è documento (ma comunque, come abbiamo visto, d'organizzazione: perché, ad esempio, non si vede e non si sente quasi mai il Nord del Vietnam?) ha pregi e limiti ben distinti: una sobrietà indiscutibile, una volontà di evitare l'effetto volgare, una partecipazione commossa.

Ma certamente non il perfetto equilibrio, la sovrana serenità di uno dei capolavori di Flaherty."


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