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CAMILLE CLAUDEL Film con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggio
  Stampa questa scheda Data della recensione: 8 giugno 1989
 
di Bruno Nuytten, con Isabelle Adjani, Gerard Depardieu (Francia, 1988)
 
Ispirato dal recente romanzo di Reine-Maris Paris, il destino tragico di Camille Claudel, scultrice di talento vissuta a cavallo tra il secolo scorso ed il nostro, eclissata dall'ombra prevaricante di due personalità: quelle di Rodin e di Paul Claudel, l'amante ed il fratello.

C'erano due follie da spiegare in questo film: quella astratta, metafisica e sublime che conduce un artista alla creazione. E che può essere un prolungamento - sopratutto una consolazione - di quella più aneddotica, tangibile e terrena che conduce una donna, appartenenente ad una famiglia potente e celebre, legata ad uno dei più grandi scultori di ogni tempo ed essa stessa artista di valore indiscusso, a morire di fame in un asilo psichiatrico, dopo 30 anni di reclusione.

La prima di queste follie non è facile da trascrivere in immagini filmiche, ma nemmeno impossibile. Ad una condizione: quella d'integrare il fervore creativo dell'artista al processo espressivo dell'autore del film.

Facciamo un esempio: nell'episodio firmato da Scorsese in NEW YORK STORIES ci viene mostrato un pittore mentre si separa dalla sua donna e, contemporaneamente, dipinge una tela. Se il suo furioso armeggiare con spatole e pennelli è piuttosto credibile, se il suo rapporto d'amore-odio con i colori che vengono disposti sulla tela ricorda i migliori esempi del genere (Kirk Douglas, nel VAN GOGH di Vincente Minnelli, ad esempio) non è soltanto per una non meglio definita perizia espressiva del regista.

Ma perché le motivazioni che sentiamo dettare al protagonista quel modo di "dipingere" traducono non solo i sentimenti del personaggio, ma i temi cari all'autore del film. Nel caso, gli stessi che guidano l'episodio - come tutta l'opera - di Scorsese: una rabbia ai limiti del masochismo, un rito dell'autopunizione, del rovesciamento del rapporto schiavo/padrone che qui assume connotati specificatamente erotici.

In CAMILLE CLAUDEL molti dei 170 minuti sono dedicati allo scontro fra l'artista e la materia da plasmare, alle dita che si feriscono nella rabbia di estrarre la vita penetrando nella creta: ma raramente (Depardieu/Rodin intento a sfiorare sensualmente il marmo freddo delle sculture, piuttosto che ad osservarle; ad odorare gli umori del corpo della modella, prima di decidersi a darle forma) si ha l'impressione di assistere ad un avvenimento che non sia soltanto una rappresentazione.

Il cinema sulla follia dev'essere, in un modo o nell'altro, il cinema della follia: una grossa produzione come questa, un'investimento - per encomiabile che sia - di una celebre star alla ricerca dell'affermazione di prestigio, difficilmente può arrischiarsi sui sentieri dell'ignoto.

Una follia - quella dell creazione - avrebbe potuto spiegare l'altra, quella della storia: in assenza della prima, anche la seconda fatica a spiegarsi.

Cosi, specie nella seconda parte dove le incertezze della costruzione drammatica vengono crudelmente e a galla, i motivi psicologici e sociali si stemperano nel disordine e nella noia: quelli freudiani, con il padre invadente interpretato dal granitico Alain Cuny, attento a declamare i versi celebrati in famiglia piuttosto che ad occuparsi della figlia che finiva sotto i ponti con i clochard. E quelli femministi, con la ricerca del padre che si trasferisce sulla figura di Rodin, riduttivamente relegato al ruolo dell'arrampicatore mondano.

CAMILLE CLAUDEL è la gloriosa (perché al film non mancono i lati da rispettare, l'ambizione del grande film europeo, la documentazione, la finizione professionale) dimostrazione di come un grande direttore della fotografia e due celebri star non bastino a tradurre febbri romantiche e requisitorie sociali: al massimo, sulle ali delle micidiali melodie inflitte dall'indefesso Gabriel Yared, quelle dell'arte, come la chiamo da quelle parti, pompier.


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