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L'IMPERO DEL SOLE
(EMPIRE OF THE SUN)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 7 aprile 1988
 
di Steven Spielberg, con Christian Bale, John Malkovich, Miranda Richardson (Stati Uniti, 1987)
 
L'ultimo Spielberg è tratto da un romanzo di Jim G. Ballard, uno degli scrittori più giustamente ammirati dagli appassionati di fantascienza. Ma L'IMPERO DEL SOLE, prima delle apparenze delle quali non bisogna fidarsi andando a vedere questo film, non rispetta la sua opera. Nasce invece dai suoi ricordi d'adolescente: a undici anni Ballard viveva tranquillamente nel protettorato europeo di Shanghai, quando i giapponesi attaccarono Pearl Harbour. Tradotto in un campo di prigionia, vi trascorre tre anni, fino allo scoppio dell'atomica (" sono il solo essere umano cui la bomba ha ridato alla vita ") : il suo libro è un notevole ritratto d'epoca dell'Asia, e la pittura commovente di una guerra vista attraverso lo sguardo di un ragazzino.

Non è però (seconda delle apparenze) un'autobiografia: Ballard non è mai stato (come succede al protagonista del film) separato dai genitori. E nemmeno ha troppo sofferto delle condizioni d'internamento: al contrario, sostiene che i giapponesi erano molto gentili coi bambini... Giungiamo così alla terza, e più importante delle apparenze: quella che vuole che un film di Spielberg non sia mai (o non sia soltanto) una road movie (DUEL), un film di pesca (LO SQUALO), di fantascienza (E.T.) o d'avventura (INDIANA JONES). Gli spettatori, per non parlare dei critici cinematografici, hanno la memoria corta: e rivivono i 154 minuti de L'IMPERO DEL SOLE come fossero una cronaca (ennesima, scarsamente attuale e retorica) dei cattivi musi gialli che prendono i bianchi buoni a bacchettate.

Visto a questo modo (e forse un film, per essere un capolavoro, deve anche esser visto a questo modo) L'IMPERO DEL SOLE è lunghetto, farcito di luoghi comuni, di sentimentalismi, di cori di bimbi ed inverosimiglianze storiche, di velleitarismo ed americanismo di stampo - oltretutto non esattamente puntuale - fastidiosamente reaganiano. Ma il cinema di Spielberg non è esattamente ciò. E per una ragione assai semplice: che di questa iconografia il regista si serve. Per trascenderla, grazie ad una visione registica, ad una scrittura cinematografica toccata dalla grazia di una costante inventiva immaginifica.

Così come INDIANA JONES non era una film d'avventura (che non può abdicare ad una determinata verosimiglianza), L'IMPERO DEL SOLE non è un film di guerra, o d'epoca, o d'ambiente: ma un cinema di situazione, nel quale ogni amplificazione, ogni cliché del genere è dilatato in una prospettiva che sacrifica la realtà all'immaginario ed al suo trionfo. Un cinema, come sempre in Spielberg, ove ogni peripezia è pretesto di movimento. Ogni idea o emozione, di traduzione dinamica. Ogni atto di volontà, di conoscenza, di paura, o d'amore di trasformazione in energia.

Certo, in una visione del genere ci sono cose che uno può anche non condividere: confesso di soffrire il finale oleografico, coi genitori che faticano a riconoscere i propri bimbi dispersi, fra cori angelici e colori diffusi. E di averlo auspicato, questo punto finale, dopo la sequenza che precede: quella ammirevole, sognante, forse delirante, sicuramente divinatoria delle derrate alimentari che piovono dal cielo, assieme a degli improbabili paracaduti da commedia musicale anni quaranta.

Dire che il film di Spielberg (ed i particolar modo le sequenze mozzafiato dell'esodo occidentale da Shanghai invasa) è girato con virtuosismo straordinario, significa relegare l'autore di E.T. nel mondo degli esteti alla Lelouch. Mentre la straordinaria inventiva di Spielberg all'interno di ogni piano (" il ne supprime jamais, il complique ", diceva Truffaut di un cineasta che, lungi da cercare l'essenzialità, tende a sovraccaricare l'inquadratura, a sfruttare fino all'esaurimento figurativo ogni situazione) ha un fine ben preciso: quello di trasformare la cronaca in allegoria, la realtà in meraviglioso.

Il protagonista spielbergiano è un Eroe - spesso qualunque e quotidiano, come quelli di Ford ed Hitchcock - che si trasforma progressivamente in Fanciullo: un essere vergine, innocente che riesce a raggiungere l'età adulta senza rinunciare al ludico ed al meraviglioso. L'IMPERO DEL SOLE è la storia di questo viaggio: una storia che comincia da una fine - quella dei privilegi coloniali - e che termina con un inizio. Il bagliore dell'atomica - come quello delle astronavi di INCONTRI RAVVICINATI o di E.T. - che annuncia il tempo del ritorno all'epoca dei consumi, dei pragmatismi e delle differenze. E anche dei viaggi sulla luna.

Su quei mondi che scompaiono e riappaiano, su quegli anni di vacche grasse che succedono ai sette di quelle magre, il ragazzino di L'IMPERO DEL SOLE cavalca in bicicletta, partecipe ed al tempo stesso incurante - nel tipico determinismo americano che Spielberg interpreta in modo quasi messianico - del dramma storico e sociale che lo circonda.

Attento, piuttosto, alle meraviglie che gli offre la vita: come lui, colui che lo dipinge è uno che sa guardarsi attorno, che sa incantarsi - ed incantarci - delle apparenze. Che sa ricordarci come il cinema - dai tempi di Meliès - ci abbia abituato a questi viaggi: un po' improbabili, un po' inutili e probabilmente discutibili.

Ma sicuramente memorabili, poiché meravigliosi.


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