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ANNI '40
(HOPE AND GLORY)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 14 aprile 1988
 
di John Boorman, con Sarah Miles, David Hayman, Sebastian Rice-Edwards, Jean-Marc Barr (Gran Bretagna, 1987)
 
Film sui sobborghi di Londra in guerra, visti attraverso gli occhi meravigliati di un bambino. Ma anche e inevitabilmente film di un regista dalla poetica ben affermata (un autore, come si usa definire), che osserva un bambino (e quindi sé stesso, poiché si tratta evidentemente di un film fortemente autobiografico) che sta a sua volta osservando... e via di seguito.

Per certi aspetti, HOPE AND GLORY non è molto dissimile da L'IMPERO DEL SOLE di Spielberg, del quale abbiamo detto una settimana fa: filtrata dallo sguardo incantato di un ragazzo, anche la guerra diventa un enorme giocattolo, un fuoco d'artificio che il cinema restituisce mirabilmente, grazie alle magiche tinte di quello che una volta si chiamava technicolor.

Le similitudini si fermano qui: poiché Spielberg è un americano che crede nel giocattolo, e nell'America che l'ha costruito. Ed il fascino del suo cinema deriva proprio da quella fede, ispirata ed ingenua al tempo stesso. Mentre Boorman è un europeo, un protestante anticonformista di origine olandese ma educato dai gesuiti, creatore di personaggi emblematici e di rinvii metafisici, che qui ritorna ad un cinema in prima persona, animato dalla precisa volontà di raccontare una storia, quella della propria infanzia. E che, contrariamente all'autore di E.T., denuncia nel suo modo di filmare forse altre contraddizioni, sicuramente altri dubbi.

HOPE AND GLORY traduce queste contraddizioni, talvolta in modo rivelatore ed affascinante. Talaltra più discutibilmente: poiché l'autore di DELIVERANCE e di ZARDOZ può certamente sforzarsi di avvicinare la realtà con la freschezza e l'innocenza di uno sguardo infantile. Ma riesce difficilmente a rinunciare alle prerogative del proprio sguardo cinematografico: quello che lo porta verso una traduzione del mondo fortemente marcata dall' immaginario. E le due cose, l'immaginario infantile e quello di un visionario adulto e maturo, ancorato ad una ben precisa estetica che conduce alla stilizzazione metaforica, non necessariamente sono la stessa cosa.

Rivelatore, HOPE AND GLORY lo è certamente, poiché ci spiega, quasi storicamente, l'origine di molte costanti dell'opera boormaniana: il ruolo del padre e quello delle presenze femminili, lo scontro fra sogno e realtà, il rifugio nella natura, nella favola e nell'epico, la tentazione romantica e la fuga nell'humour. Affascinante, poiché la mano del regista - e non lo scopriamo oggi - è maestra nel scomporre la realtà nel mito e nel meraviglioso: così la lunga strada dell'East End londinese incorniciata da irreali tramonti, i dirigibili quasi felliniani che dondolano nel cielo azzurro, il soffio di una bomba che penetra l'intimità familiare, le case squarciate dalle bombe che bande di ragazzini e coppie di amanti percorrono quasi simbolicamente, compongono un quadro inedito e poetico della tragedia guerriera che rimarrà nella mente. Come se la violenza dell'uomo e l'assurda ineluttabilità della guerra fossero finalmente osservate con compassione e speranza.

Più inaspettata, e forse meno riuscita, la seconda parte del film: introdotta da una rottura di tono probabilmente voluta ma non necessariamente benvenuta. Dai selciati divelti delle bombe si passa al fiume incantato (altro tema caro ai riti iniziatici dell'autore), alla foresta consolatrice di recente memoria: e qui l'autore sembra riprendere il sopravvento sul fanciullo, la riflessione (forzatamente distaccata) sull'evocazione (seppure fantastica).

È come se l'autore di LEO THE LAST e di EXCALIBUR si mettesse a raccontare della propria opera: dimenticandosi che stava raccontandoci di sé stesso.


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