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FULL METAL JACKET
(FULL METAL JACKET)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 22 ottobre 1987
 
di Stanley Kubrick, con Adam Baldwin, Vincent D'Onofrio, Kevin Major Howard (Gran Bretagna - Stati Uniti, 1987)
 
Intervistato da Newsweek nel l972, Stanley Kubrick diceva: "Ognuno di noi, che lo voglia o meno, é in parte affascinato dalla violenza. L'uomo, dopo tutto, è il killer meno provvisto di rimorsi che abbia vissuto sulla terra. E quella fascinazione dimostra che siamo assai poco dissimili dai nostri antenati più remoti".

FULL METAL JACKET non è (o non è soltanto) un film antimilitarista, sul Vietnam, sulla guerra, sulla violenza. Ma quello su un'eredità, di tipo cromosomico, che l'uomo si porta appresso da sempre. Quello sull'impossibilità di svincolarci dalla malignità e dalla perversione della nostra natura e della nostra cultura.

Jack Nicholson, che molti ricorderanno in SHINING, era preda della follia, dell'orrore e del Male poiché questa parte della propria natura sopraffaceva la sua cultura, il suo desiderio di diventare scrittore.

Sette anni dopo, uno dei grandi temi del regista riappare sotto vesti trasfigurate (dal film d'"orrore" a quello di "guerra"): nessun film di Kubrick è mai stato simile al precedente. Ed in questa volontà, in questo potere di sorprenderci, di sconcertarci (ricordate le riserve con le quali furono accolti 2001: ODISSEA NELLO SPAZIO, ARANCIA MECCANICA per non parlare di BARRY LYNDON?) sta uno dei grandi segreti e, superato il fastidio imposto alla nostra pigrizia, del fascino impareggiabile della sua arte.

Il film è diviso, com'è ormai noto, in due parti: apparentemente, l'addestramento dei marine nella prima, e l'azione di guerra nel Vietnam nella seconda. In effetti, - introdotta da una sequenza iniziale nella quale assistiamo alla tosatura dei nuovi arrivati - in un processo di disumanizzazione, seguito da un tentativo che potremmo chiamare di riumanizzazione.

Come riesce Kubrick a trasformare in qualcosa di esemplare, di distaccato, di astratto due avvenimenti così realistici, tragicamente spettacolari come un addestramento militare (con tutto ciò che comporta di crudele e di idiota) e addirittura un'azione di guerra? Grazie alla trasfigurazione ottenuta dalla visione registica: gli attori (praticamente sconosciuti, un vero istruttore militare, delle pedine immesse su uno scacchiere più grande di loro), i dialoghi (immediatamente straordinari, di forza, efficacia ed originalità espressiva), la semplicità del taglio e del montaggio delle immagini. Ma, soprattutto, dalla luce e dall'uso dello sfondo, dell'ambiente.

La luce di BARRY LYNDON è rimasta celebre nella storia del cinema: era affascinante, come quella dei pittori delle settecento inglese ai quali s'ispirava (Constable, Hogarth, Reynolds, Gainsborough, ecc. ). Era una luce "bella" poiché serviva ad un discorso ben preciso: mostrare come dietro alla bellezza perbene di un'epoca si nascondevano le perversità umane e sociali di sempre. Quella di FULL METAL JACKET è già sta definita piatta se non brutta da alcuni (gli stessi, probabilmente, che parleranno del "solito film di guerra"... ): in effetti, essa risulta essere uno degli elementi determinanti alla trasformazione del film. Da cronaca (alla PLATOON), da spettacolo (alla APOCALYPSE NOW) a riflessione etica.

Priva di ombre, sovraesposta, dai colori slavati, la luce trasforma il campo di addestramento in uno sfondo neutro come una lavagna, privo di mezze tinte come di mezze misure. Un luogo vieppiù' stilizzato, ineluttabilmente sinistro ma anche quotidianamente familiare, dove gli oggetti e quindi i sentimenti si modificano: un arma diventa un oggetto di desiderio, l'aggressività una proiezione della sessualità. A questa tavola di vivisezione si sostituiscono, nella seconda parte del film, i sobborghi di Hué, dove gli insegnamenti dovranno essere messi in pratica. E dove, forse, (poiché lo scopo dei film di Kubrick non è certo quello di spiegare, tanto meno di permetterci d'identificarci: ma piuttosto d'inquietare, di obbligarci a porre degli interrogativi) la lobotomizzazione della prima parte cederà il posto ad una relativa, e forse ambigua, presa di coscienza.

Anche qui la luce, e l'utilizzo dell'ambiente nobilitano il procedimento del regista. Ora che i misteri che circondano le lunghe gestazioni di Kubrick sono scomparsi, comprendiamo perfettamente che l'idea di girare FULL METAL JACKET nei sobborghi di Londra è stata, una volta ancora, un'intuizione geniale. Quattro palme spelacchiate, due tramonti di cartapesta ed una serie di edifici in rovina (nella realtà un complesso industriale in rovina sulle rive del Tamigi) servono al discorso del film infinitamente di più di tutte le giungle del Vietnam. Bagnata da un chiarore marziano la guerriglia urbana, la caccia al cecchino, la strategia di non so quale accerchiamento vietcong perde ogni connotazione logica: il Vietnam - ammesso che sin da principio di Vietnam si tratti - scompare nella memoria di un destino più grande, ancora, di una guerra. E, come cattedrali barocche, le rovine fumanti s'identificano sempre di più con l'affresco desolato, ed al tempo stesso lucido, di una civiltà in via d'estinzione.

Il cinema di Kubrick, lo abbiamo imparato da tempo, va lasciato decantare nel tempo e nella memoria. Dopo che la distruzione di un'apparenza esteriore abbia dato corpo ai significati ed alle emozioni. Come in BARRY LYNDON, in SHINING o in LOLITA, anche in FULL METAL JACKET è dalla disgregazione, dalla degenerazione di questo involucro che rimarra' nella memoria il significato del film. Tutto il cinema più grande si È sempre significato non su una storia, su una psicologia o un testo: ma sull'intervento dell'ambiente, sulla dialettica poetica tra lo sfondo e la vicenda. Magistralmente integrato all'ambiente, FULL METAL JACKET non potrà che ingigantire nel nostro ricordo; ed entrare a far parte di quel cinema più grande.


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