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MELO'
(MELO)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 4 febbraio 1988
 
di Alain Resnais, con André Dussolier, Sabine Azéma, Pierre Arditi, Fanny Ardant (Francia, 1986)
 
Cos'è MELO? Rispondere all'interrogativo è scoprire il cammino che conduce dalle apparenze alla realtà. Ed è scoprire la folgorante bellezza - semplice, delicata, incredibilmente intelligente nella sua diversità - di questo film inimitabile.

MELO, come dice il titolo, è un melodramma teatrale scritto nel l929 da Henry Bernstein: il tradizionale triangolo amoroso, l'amicizia, la passione, la colpa, l'espiazione. Tutta la convenzione teatrale, tipica del teatro borghese, di boulevard d'inizio secolo. Resnais la filma all'inizio con tranquilla determinazione: le scene di cartapesta dipinta, la recitazione teatrale - ai nostri occhi ridicola - degli attori; il tutto ripreso nel modo cinematografico più schematico, il campo - controcampo. Si sente immediatamente che l'autore di MARIENBAD vuol sottolineare al massimo la teatralità - la presunta falsità quindi - della situazione: il dialogo originale è ripercorso scrupolosamente, parola dopo parola. Il sipario cala e si rialza ad ogni atto, e non manca il mormorio dello spettatore. Al tempo stesso, ci accorgiamo come il regista rispetti totalmente questa convenzione: se la filma, se la impressiona su pellicola, se inizia MELO secondo le regole del cosiddetto teatro filmato è perché egli ama il testo, i personaggi, il mondo di Bernstein. Ma MELO (ed è da quel momento che diventa grande) non è un film nostalgico o rétro; ancor meno la rilettura moderna di un testo dimenticato. Totalmente fedele alla costruzione ed allo spirito teatrale del suo modello, MELO è tutto fuorché del teatro filmato.

In questo paradosso apparente sta tutta la bellezza del film: raramente il cinema ha rispettato così fedelmente il modulo della convenzione teatrale. Ma raramente, con la sola forza della propria espressività è riuscito al tempo stesso ad allontanarsene, ad ergersi a significato autonomo, ad aggiungere forza a forza, bellezza a bellezza. Progressivamente, Resnais entra nelle convenzione, e la modifica: le sue inquadrature isolano i personaggi, afferrano gli sguardi, mettendo a nudo le psicologie, introducendo una nuova drammatizzazione. Dalla dialettica dei caratteri, complessa nella sua apparente facilità, nasce il dramma: ed un nuovo rigore, una nuova emozione viene a sostituirsi a quella originale. Le psicologie mutano ed evolvono, la verità non è più quella che ci sembrava all'inizio, il teatro non cerca più di assomigliare alla vita, ma è la vita che sempre più assume l'aspetto del teatro...

Resnais penetra all'interno della convenzione teatrale: più progredisce in questo suo cammino, più il discorso diventa chiaro, semplice. Lo stile si quieta, i colori si stemperano: e gli attori (poiché sono in definitiva loro ad incarnare quelle psicologie, quegli scontri dialettici che altrimenti svanirebbero nell'astrazione) si sublimano meravigliosamente. La valorizzazione, la verità dell'attore all'interno del sottile gioco espressivo di Resnais costituisce una felicità nella felicità: il confronto finale fra il marito e l'amante è uno dei momenti d'attore sicuramente più grandi che il cinema ci abbia offerto. E ciò che fa André Dussolier , un attore che da noi conoscono soltanto gli ammiratori dei film di Rohmer, è di una perfezione non tanto sbalorditiva, ma commovente.

La forza, magnificata nella sua semplicità, dell'intervento del regista, la grazia sovrana degli interpreti, stravolgono - rispettandola - la farsa in tragedia: e, come in tutto il cinema di Resnais, affiora la sua meditazione sul trascorrere del tempo, sull'ambiguità della memoria , sulla fragilità dei sentimenti.

Alla fragile leggerezza della commedia début siècle viene a fondersi l'interrogativo metafisico: a bellezza, come nel pennello che sovrappone le tinte agli umori, viene ad aggiungersi bellezza.


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