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IL NOME DELLA ROSA Film con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggio
  Stampa questa scheda Data della recensione: 30 ottobre 1986
 
di Jean-Jacques Annaud, con Sean Connery, Christian Slater, Fahrid Murray Abraham Michael Lonsdale (Francia, 1986)
 
"Non è il coraggio, e nemmeno l'ambizione che mancano a Jean-Jacques Annaud. I suoi film sono delle satire socio-politiche (i deliziosi, e ignorati dal grande pubblico, La victoire en chantant, del 1976 sul colonialismo; e Coup de tète, 1979, sui... tifosi di calcio in provincia), caustiche, brillanti, attente. Oppure delle scommesse, apparentemente insensate, come quella di descrivere la nascita dell'uomo senza cadere nel didattico o nel ridicolo: che incontrano quasi inaspettatamente, un successo mondiale (La guerra del fuoco, 1981).

I quattro milioni di lettori del libro di Umberto Eco attendono col fucile spianato la nuova sfida del regista francese: e Il nome della rosa in immagini, con un ex James Bond nelle vesti del buon investigatore e un ex Amadeus-Salieri in quelle del cattivo inquisitore è un piccione servito appuntino ai nostri tiratori del sabato sera. Dire infatti che il romanzo di Eco, così giocato sulla parola, così strutturato sul testo, così vicino alla nozione, proprio medioevale, proprio benedettina, del Libro, dire come si dice da sempre della letteratura, che è intraducibile in cinema (riaprire l'annoso dossier dei rapporti fra immagine e parola) è cosa che scoraggia in anticipo. Cercare nella concretezza fotografica dell'immagine cinematografica il rinvio che crea nell'immaginario la parola scritta, e ancor più quanto di "non scritto" viene a crearsi fra le righe, è un esercizio fra i più sterili. Per non dire sciocchi.

Ciò non ha mai impedito, tanto per evitare le verità assolute, ad un Visconti di sovrapporsi a Verga, Lampedusa o Thomas Mann con un equivalente segno cinematografico. Non solo: con una equivalente ma autonoma dimensione d'autore. Coraggio non significa incoscienza: e Annaud non deve aver atteso che gli spiegassimo che il romanzo di Eco era intraducibile in cinema. Tant'è vero che, dalle prime immagini dei titoli di testa, parla di "palinsesto". Di qualcosa, come c'insegna il dizionario, che è stato raschiato per scrivervi di nuovo. Per sovrapporvi una nuova scrittura. Questa nuova scrittura, il regista l'ha voluta monocroma: a parte il rosso sgargiante dei paludamenti vaticani indossati dagli emissari del Vaticano, ogni immagine di IL nome della rosa è come una tela grezza che slava nell'ocra, una scacchiera vuota sulla quale gli elementi della costruzione non sono ancora stati posati. Alcuni, di questi elementi, si aggiungeranno efficacemente nel corso del film: il paesaggio che circonda l'abbazia, immenso, desolato, alienante. Non dissimile, in questo suo ruolo, da quello immaginato a suo tempo da Zurlini per il Deserto dei tartari. Gli esterni del convento stesso, ricostruito nei dintorni di Roma, sapientemente evocato sul filo di un'astrazione che si carica di realtà quando l'azione (diciamo poliziesca) lo esige. I costumi, il trucco dei personaggi: che li riduce, ad eccezione dei due protagonisti (il giovane Adso, novizio e Watson ante litteram dello Sherlock Holmes che conduce l'inchiesta, il francescano Guglielmo da Baskerville) a delle maschere grottesche, a degli archetipi dai molti vizi (invidia, lussuria e via dicendo) e risapute (le ricopiature degli antichi testi) virtù.

Alla sapienza del gioco letterario di Eco andava sostituita un'invenzione figurativa: quando i due protagonisti riescono finalmente a penetrare nella biblioteca che conserva i segreti della cultura (e quelli del mistero degli omicidi a catena) essi si trovano di fronte ad un dedalo di corridoi, scalette e vestiboli. Sembra una costruzione di Escher, uno di quegli straordinari trompe-l'oeil nei quali il rigore logico del disegno è costantemente contraddetto dall'assurdità dell'assunto. In questa parte del film, sicuramente la migliore, Annaud riesce a contrapporre al labirinto della logica letteraria di Eco un'equivalente e stimolante costruzione figurativa. Allora, condotto com'è sul filo di una irreprensibile ricostruzione, il film s'impenna immediatamente. Non così, quando certi imperativi delle convenzioni cinematografiche sembrano avere la meglio: certi schemi dell'inchiesta, la figura e la fine dell'Inquisitore di maniera, il commiato finale dalla ragazza. Malgrado questi alti, e questi bassi, la trasposizione potrebbe riuscire: se il regista riuscisse, oltre alle equivalenze figurative, a sovrapporre una sua dimensione d'autore. Qualcosa, dell' Annaud dei film precedenti, lo ritroviamo: un'ironia di base (pertanto assai meno denunciata che nel testo di Eco), dei riferimenti al gesto cinematografico (che avevano fatto la riuscita di La guerra del fuoco), l'animalità, anche questa più divertita che critica, di certi personaggi (il monaco-bestione e poliglotta) o di certe situazioni (il coito, con tanto di mugoli profani).

Sfiorando appena (ma come potrebbe altrimenti?) misticismo e follia, ragione e fanatismo, oscurantismo e repressione il film non potrà che deludere semiologhi, medievalisti o anche semplicemente appassionati d'intrighi polizieschi che si sono persi (o magari ritrovati saltando le pagine) nel best-seller di Eco. Arrischia anche di deludere i cinefili, ansiosi, nel conformismo del panorama cinematografico attuale, di ritrovare la personalità prepotente di un nuovo cineasta. Il norme della rosa resta un'opera più che dignitosa, a tratti intuita e tradotta squisitamente: alla quale manca l'impronta, altrettanto prepotente di quella dello scrittore, che sappia piegarla ai propri vezzi d'autore."


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