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LA ROSA PURPUREA DEL CAIRO
(THE PURPLE ROSE OF CAIRO)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 12 settembre 1985
 
di Woody Allen, con Mia Farrow, Jeff Daniels, Danny Aiello, Dianne Wiest, Van Johnson (Stati Uniti, 1985)
 
Quando un autore reinventa il proprio mondo poetico come ha fatto Woody Allen con i suoi tre ultimi film (Zelig, Broadway Danny Rose e La rosa purpurea del Cairo) è difficile per il povero critico non gridare al capolavoro.

A Woody Allen, ormai, riesce tutto. Con una continuità, una facilità e una perfezione che non trova paragoni in tutto il cinema americano contemporaneo. Se il cinema americano è considerato da sempre il migliore al mondo (diciamo, perlomeno, il migliore in un certo genere) allora il piccolo comico nuovaiorchese, quello stesso che dieci anni fa faceva ridere ma non era capace di filmare la propria vena comica, ora è diventato il più grande regista vivente? Il vostro critico preferisce evitare di rispondere. Ma come lui, altri finiscono per trovarsi imbarazzati. E, tutti assieme, inventiamo cavilli.

Da Cannes scrivemmo che La rosa purpurea ridicolizzava, con la sua grazia e la sua sapienza, tutte le altre opere. Un unico appunto: che forse Allen non aveva osato a sufficienza. Una volta strappato allo schermo il suo personaggio fittizio, una volta proiettatolo nelle angustie e nelle meschinità della vita reale, si era un po' accontentato della situazione. Sfociando in un'utile, ma non inedita (anche per lui, che già l'aveva usata in Broadway Danny Rose) satira del mondo` dello spettacolo, in tutta la sua aurea mediocrità. Senza cercare, magari, di spingersi oltre sulla strada pirandelliana dell'assurdo. Verso una dimensione alla Buster Keaton nella quale, per esempio, altri personaggi uscissero da altri schermi in un happening nonsenslstico.

Altri, nel frattempo (ad es. il sempre autorevole Cahiers du cinema) scrivono che l'infallibilità di Allen diventa sempre più terribile. Ma che non ci porta molto distante: e che fra dieci anni i suoi film ci appariranno di una sapienza arida e, in definitiva limitata. In attesa che questi dieci anni trascorrano non si può che dar atto dell'evidenza. E cioè che La rosa purpurea (come Broadway, come Zelig) sono una pura delizia.

Prendiamo il tema. Personaggi fittizi che entrano nella realtà confini tra sogno e verità che si confondono, riflessione sull'immaginario proposto dallo schermo, procedimento del film nel film, bianco e nero contro colore, e via di seguito: tutte cose che altri hanno già fatto.

Ma nessuno le ha fatte come Allen. Non solo per il tono da lui usato: Allen non recita nel film, ma ogni battuta, ogni sguardo della pellicola gli appartiene. Esattamente come fosse presente in carne e ossa. Non solo perché la perfezione, il virtuosismo con la quale il regista riesce a sviluppare il suo tema rimangono indimenticabili. Grazie ad una libertà di tono che gli appartiene da sempre, Allen riesce ad imporre una propria logica al racconto.

La rosa purpurea sta tutta nel piacere di raccontare, di lasciarsi andare per i vezzi della fantasia senza che per un solo istante lo spettatore si ribelli all'assurdo. Un gioco certo compiaciuto e narcisistico, ma mai fine a sé stesso. Perché il sogno gli serve ad un discorso ben preciso, quello di demolire le illusione create da quella che di questi sogni è stata definita la fabbrica.

Comico, poeta, filosofo, regista: quale avvenire ci riserva il genio imprevedibile di Woody Allen? In un mondo in crisi, che molti pretendono privato d'illusioni com'è quello del cinema, un interrogativo del genere dice tutto sull'importanza e sul fascino del personaggio.


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