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LE NOTTI DELLA LUNA PIENA
(LES NUITS DE LA PLEINE LUNE)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 2 maggio 1985
 
di Eric Rohmer, con Pascale Ogier, Fabrice Luchini, Tchéky Karyo (Francia, 1984)
 
Louise, come tutte le eroine di Rohmer, sbaglia e paga. Unita ad un architetto che vive nella periferia parigina, decide dl non disfarsi della sua camera in centro. Ma di andare ad abitarla, di tanto in tanto dopo il lavoro, invece di rientrare a casa dal suo uomo. Poiché tutti i film di Rohmer (con una coerenza che ha pochi confronti anche fuori dal cinema francese) si assomigliano (e si rinnovano) essa segue l'identico destino della Sabine del Beau mariage o della Marion di Pauline a la plage; che a loro volta avevano "deciso" di sposarsi e, rispettivamente, d'innamorarsi. Scelgono di seguire gli impulsi del proprio desiderio. Convinte, come sono, che con questa scelta conserveranno un certo tipo di potere. Perlomeno quello di avere in pugno il proprio destino. Le scelte dei personaggi di Rohmer non nascono mai da ragioni sentimentali, o sociali: sono il risultato di un calcolo, di un ragionamento spesso opportunistico. Fraintendono quella "libertà" che i tempi moderni sembrano concedere loro, la sostituiscono a quel principi tradizionali che una società in falso divenire ritiene sorpassati. Cosi, allontanandosi dai principi di un'etica, di una morale (cristiana, come l'autore) essi affrontano immancabilmente la loro perdizione. Rohmer non è misogino (al contrario, uno dei cineasti più vicini al discorso dell'emancipazione femminile del dopo-femminismo) né tanto meno un moralista in senso negativo. Piuttosto, com'è stato spesso definito, un etnologo. I suoi personaggi non sono mai simpatici, quasi sempre futili o un poco sciocchi; di conseguenza lo spettatore evita d'identificarsi in quella specie di marionette, di esempi di comportamento astratti o addirittura arbitrari. Nasce così quel cinema tipicamente rohmeriano, fatto di distanziazione di tipo brechtiano, di osservazione, di critica amabile-feroce di una società che si è fatta delle illusioni clamorose in fatto di "modernismo". Eguali e dissimili, i film di Rohmer evolvono e si perfezionano all'interno di quegli schemi. La loro forma, ad esempio: se i destini sono quelli alto-borghesi di una vacanza estiva essi assumono i colori brillanti ed un poco fatui della spiaggia atlantica dl PAULINE A LA PLAGE. Ma se sono quelli, più ritriti del "métro-boulot" di una borghesia modesta, eccoli assumere le tinte spente e rassegnate (anche se illustrano la Parigi alla moda della Place des Victoires) dei verdi e dei blu da acquario casalingo. Se, come in questo LES NUITS DEL LA PLEINE LUNE l'azione si svolge in una delle metropoli più vitali al mondo piuttosto che nella provincia di LE BEAU MARIAGE, ecco Rohmer approfittarne per dedicarsi ad ulteriori studi di comportamento. Ed ecco che il ritratto dell'amico dl Louise (l'amico del cuore, non quello dei sensi, anche se fra le innumerevoli velleità ci sarebbe sicuramente anche quella di invertire i ruoli...) diventa un piccolo gioiello nel gioiello: uno spassoso, acutissimo ritratto di quello che i francesi definiscono "pariginismo" ma che costituisce una degenerazione intellettuale sicuramente non confinata nella capitale francese. I film di Rohmer sono sempre scritti, dalla sceneggiatura all'ultimo riflesso di un'illuminazione con un compiutezza affascinante. In questo caso, l'autore sembra sorpassarsi: e tutta la meccanica della trappola che progressivamente (e, come sempre, prevedibilmente...) viene a rinchiudersi sulla protagonista è descritta con la precisa inesorabilità che ricorda non solo i capolavori di uno dei maestri di Rohmer, Hawks, ma anche quelli di un altro geniale inventore di trabocchetti esistenziali, Fritz Lang. La scelta degli attori, che il regista investe sempre di un'importanza comportamentale esemplare, e perfetta: la scomparsa immatura di Pascale Ogier è resa ancor più dolorosa dalla freschezza e dall'intelligenza della sua interpretazione in questo film. E Fabrice Luchini, l'amico chiacchierone, è di una bravura infinita nel dosare gli aspetti spassosi-mostruosi di un personaggio dall'ambiguità determinante. La sua volontà, per ambigua che sia, di andare a fondo delle cose con l'uso della parola diventa il vero asse portante del film. Poiché, da sempre, è proprio sulla parola, e quindi sulla frase e sul dialogo, che si costruisce tutta l'architettura registica di Rohmer. Su quella volontà ostinata di cercare, di spingere all'estremo del raziocinio e del significato l'uso della parola, di tentare i confini estremi offerti dal linguaggio e dalle sue strutture, si organizza tutto un mondo di parole che diviene di immagini, e quindi di idee, tra i più intelligenti e poetici di quell'universo chiamato cinema che sempre intelligente e poetico non è.

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