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LA STORIA INFINITA
(DIE UNENDLICHE GESCHICHTE)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 20 dicembre 1984
 
di Wolfgang Petersen, con Noah Hathaway, Barret Oliver (Germania - Gran Bretagna, 1984)
 
Prima di ogni altra cosa, questo film è un avvenimento a livello di produzione cinematografica: una specie di sfida agli americani. Proprio nel loro campo preferito: quello delle enormi fiabe tecnologiche, dei giocattoloni animati, dei mostri in caucciù che si gonfiano e muovono gli occhi peggio che se fossero veri. Il campo vincente insomma, quello che tiene in piedi il cinema scrollato dalle scemenovelas televisive, quello degli Spielberg e compagni.

Costato appena trenta milioni di dollari proprio perché girato interamente in Europa, negli studi di Monaco della Bavaria (e Spielberg, che ammira il film, ha detto subito che in America il film sarebbe costato almeno quindici milioni di dollari in più...) LA STORIA INFINITA costituisce quindi in questo senso un fatto notevole. Un piccolo schiaffo, ma importante, allo strapotere cinematografico USA nel mondo: convalidato dal fatto di esser stato girato in un inglese da diffusione mondiale, e di aver raggiunto risultati più che lusinghieri al box office di oltre oceano.

Ma c'è di più: poiché linguaggio e significati viaggiano sempre pari e passo, l'autonomia produttiva nei confronti del sistema imperante si riflette anche in un campo meno materiale di quello delle somme e delle sottrazioni. Così, LA STORIA INFINITA introduce, per la prima volta nel campo di questo genere cinematografico, una iconografia che non è debitrice della "heroic-fantasy" alla quale siamo ormai abituati. I soliti mostri buoni e cattivi, gli elfi, i draghi, i lumaconi di rito, sono stati si costruiti nelle solite fabbriche (dai creatori, ormai insuperabili, che firmarono animazioni ed effetti speciali di ALIEN,INCONTRI RAVVICINATI, L'IMPERO CONTRATTACCA e via dicendo) ma impiegati e inseriti in un contesto di cultura europea.

In questo film di bambini-adolescenti, frequentatori ormai preponderanti delle sale oscure, non si pensa quindi tanto al ragazzino ed al buon mostro E.T.: ma a quelli di Bosch, inseriti in una luce che ricorda i pittori romantici tedeschi. O ai personaggi delle favole di Grimm, immersi in un clima da Nibelunghi. Non tutti hanno visto di buon occhio questa internazionalizzazione di una dimensione tipicamente germanica: come già nel precedente U - BOOT 96 (DAS BOOT) - una storia di guerra, idealizzata in un sottomarino, che Petersen aveva filmato in modo efficace quanto anonimo, ma che aveva costituito nell' 81 il maggior successo del cinema tedesco in casa ed all'estero - c'è chi ha visto rigurgiti d'ambiguo trionfalismo graaliano. E chi ancora, probabilmente a maggior ragione, il premio ad un cinema di "qualità" nei confronti di quello di idee dei Wenders, Herzog e autori vari.

Piuttosto, per restare coi piedi per terra, rimarrei alle immagini del film. Detto dei pregi, occorre anche sottolinearne i limiti. In una storia come questa (un bimbo-lettore - specie notoriamente in via d'estinzione - s'identifica ai protagonisti della fiaba fino a farsi divorare letteralmente dal racconto) la morale è semplice: credere al Sogno, alla fantasia. Evitare di lasciarsi sopraffare dal Nulla del quale si parla nel film: e che non è altro che un materialismo finalizzato, che poco o nulla spazio concede all'irrazionale. Un credo non certo inedito, identico a quello di E.T. Ma Lucas e Spielberg predicano queste profondità non certamente abissali con humour e invenzione figurativa. E non direi che queste due cose abbondino nel pur colto Petersen.

Così il film è un'illustrazione sapiente e gradevole, oltre che pittoricamente originale: ma la sceneggiatura è di un semplicismo disarmante. E, all'interno delle singole situazioni già poco inedite, trionfa una mancanza d'invenzione totale. Un bell'album illustrato. Che magari, tra un accenno commosso di sbadiglio e l'altro, ricorderà agli adulti in sala chiaroscuri più sapienti. Neogotici o post-romantici, a piacere.


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