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LA FEMME PUBLIQUE Film con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggio
  Stampa questa scheda Data della recensione: 13 dicembre 1984
 
di Andrzej Zulawski, con Valérie Kaprisky, Francis Huster, Laurent Wilson, Gisèle Pascal (Francia, 1984)
 
Come una giovane attrice diventa una star: soggetto che il cinema ha affrontato innumerevoli volte. Ma l'autore di POSSESSION e di L'IMPORTANT C'EST D'AIMER non poteva non plasmare la faccenda a modo suo. Ed infatti, la volitiva ascesa della ragazza si svolge per un tramite ben preciso: l'Incontro con il regista (Francis Huster). LA FEMME PUBLIQUE si sviluppa quindi su almeno tre piani: la cronaca, in una Parigi contemporanea ma stravolta nei colori e nei suoni (un po' come la Berlino di POSSESSION) delle vicende - prevalentemente sessuali - della ragazza. La descrizione delle riprese del film del regista, secondo il tipico procedimento del film nel film. E ancora le trame, piuttosto oscure per lo spettatore, di un complotto politico nel quale e coinvolto l'altro uomo, il buono, interpretato da Lambert Wilson.

Tutto questo, che può apparire ed in effetti lo è anche, eccessivo, ha un'importanza relativa. Poiché, lo avranno compreso coloro che hanno seguito il cinema barocco, estremo e personale del regista polacco esule in Francia, i veri temi sono quelli di sempre. Non per nulla l'autore che il regista mette in scena è Dostoievski: ne I Demoni si riflette sul tema del doppio, che nella somiglianza si attira e si respinge, sul potere malefico di un personaggio sull'altro, sulla nozione del possesso, dell'assenza di Dio. Non per nulla, anche se Zulawski dichiara di non aver voluto creare un alter-ego nella figura di questo regista che proclama di creare "contro" coloro che hanno perso il timor di Dio almeno in un aspetto egli si allinea inequivocabilmente al personaggio di Huster: la volontà, dichiarata, di essere un autore. E se autore significa la dimensione di poter riproporre, di film in film, una continua e coerente tematica, a Zulawski, perlomeno sul piano stilistico, questo non va negato.

Il film, come le opere precedenti, è indubbiamente giratocon grande talento espressivo: il ritmo esasperatamente convulso costituisce il tessuto di base (anche fastidioso) sul quale s innesta un uso della camera, dell'illuminazione, del colore, del suono o del montaggio che portano continuamente all'intuizione formale. Un rigore (anche nell'eccesso) senza il quale questo cinema dell'Io cadrebbe in pochi minuti nella trappola del narcisismo e del grottesco. Che questa trappola si spalanchi sempre maggiormente, dopo la riuscita di POSSESION, mi sembra però evidente. La violenza espressiva di Zulawski, che trova la sua pubblicità massima nei risultati rivelatori (anche qui evidentissimi) che egli ottiene sulla messa a nudo psicologica degli attori (prima Adjani, ora Kaprisky) conduceva nel suo cinema precedente allo sviluppo di una situazione drammatica, e quindi anche morale e psicologica. Qui, pericolosamente per la giustificazione ad uno stile che tende sempre ai toni gridati, sembra invece ricondursi invariabilmente ad un ripiegamento su sé stesso che potrà anche essere interessante ma che arrischia di confinare le immagini zulawskiane nel terreno dello psicodramma isterico più che in quello della creazione artistica al quale il suo cinema esplicitamente aspira. Quando l'autore ci fa assistere alle ripetizioni interminabili e confuse de I demoni egli ci delizia indubbiamente con alcune intuizioni espressive (L'incontro fra la Kaprisky e Huster attraverso l'immagine del video; certi primi piani crudelmente strappati alla protagonista); ma in compenso ci affligge con riflessioni sulla divinità ragnesca che Bergman ha sondato svariati decenni or sono. O mette in bocca alla protagonista delle ovvietà del tipo "com'è che nella vita siete esattamente il contrario che nel vostro film?", che sconfinano dalla semplice ed innocente civetteria alle turbe che mi sembrano affliggere il creatore.


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