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INDIANA JONES E IL TEMPIO MALEDETTO
(INDIANA JONES AND THE TEMPLE OF DOOM)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 1 novembre 1984
 
di Steven Spielberg, con Harrison Ford, Kate Capshaw, Dan Aykroyd (Stati Uniti, 1984)
 

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INDIANA JONES non è tanto la continuazione de I PREDATORI DELL'ARCA PERDUTA quanto la sua ripetizione. Non è tanto il ritorno della Grande Avventura, come dice la pubblicità, quanto il ritorno all'interno dell'identico schema di alcune costanti del cinema dell'autore di LO SQUALO e E.T. L'avventura, così come ce la ricordiamo dagli esempi tradizionali ai quali attinge anche Spielberg, non deve necessariamente abdicare ad una relativa verosimiglianza, ad un riferimento anche romanzato con la realtà. In INDIANA JONES, al contrario, tutto si sacrifica al trionfo dell'immaginario. Ogni avvenimento è amplificato, ogni cliché del genere è dilatato in una prospettiva esasperata. I serpenti, scorpioni, pipistrelli, coccodrilli e altri animali, magari innocenti ma colpevoli soltanto di far parte del catalogo dei nostri fantasmi del terrore sono esposti a palate. Come per gli eroi dei fumetti giovanili, nulla è impossibile: saltare da un aereo che precipita su un canotto gonfiabile, slittare con il medesimo sul ghiaccio fino al burrone, precipitare ma nel fiume, finire inghiottiti dalla cascata. Ma con la rassicurante convinzione che tutto finirà per il meglio. Il ritmo forsennato dell'inverosimiglianza detta una sola logica, una sola struttura sulla quale si costruisce la ragione d'essere del film: quella dell'invenzione figurativa. Non solo noi conosciamo esattamente lo schema di una storia o di una situazione. Ma, esattamente come nell'arte del "d'après", il nostro piacere è raddoppiato dal fatto di conoscere il significato di una rappresentazione: poiché questo meglio ci permette di apprezzare l'improvvisazione, la fantasia dell'autore all'interno di una situazione arcinota.

Spielberg riprende esattamente lo stesso schema drammatico de I PREDATORI. Non solo: addirittura le medesime gag. Come la più celebre, quella della pistolettata contro i due cattivi armati di scimitarra. Spielberg ha l'impudenza di riproporre esattamente la medesima situazione. Harrison Ford mette mano alla fondina: ma questa, semplicemente, è vuota... Liberatosi dalla costrizione di dover render credibile una storia o dei personaggi, il cinema di Spielberg può allora dispiegarsi in tutta la sua libertà, e lo spettatore divertirsi a ricercare determinate costanti o, semplicemente, godere di una cascata d'invenzioni che, a parte una breve pausa a circa due terzi del film, s'intrecciano ad un ritmo sbalorditivo. Cinema convulso, che mai si sofferma sui dettagli di un paesaggio o di una psicologia, che mai ricerca il rigore di una composizione. Ma che carica ogni inquadratura di mille dettagli, cercando di sfruttare al massimo ogni soluzione figurativa che la situazione gli suggerisce. Cinema della dinamica, della trasformazione in movimento di ogni emozione. Come nell'incredibile, dilata sequenze dell'inseguimento nei vagoncini della miniera, dove i tempi, le mimiche (il corpo del ragazzino cinese che si allunga mentre i vagoncini si allontanano sulle rotaie) si deformano con la libertà e la poesia dell'assurdo del disegno animato.

Cinema dell'innocenza, del ricordo infantile, dei fantasmi adolescenziali: l'eroe spielberghiano è sempre di più un ragazzino. Che guarda ad Indiana Jones come ad un eroe primitivo, rinforzandone il ruolo di archetipo. E che conduce al finale quasi oleografico, con tutti i bambini liberati, i protagonisti che si abbracciano, il trionfo del ludico e del meraviglioso. INDIANA JONES può esser visto soltanto come un atto d'improvvisazione sfrenata, nel quale il piacere e l'arte della dinamica registica diventa la sola ragione di un itinerario. Visto altrimenti, INDIANA JONES è qualcosa d insopportabilmente improbabile, intriso di reaganiana supponenza: con gli indiani imbecilli e perversi, i bianchi saggi e liberatori, le donne strillanti e altrettanto sciocche degli indigeni, e gli uomini ovviamente virili e dominatori. Ma, se andiamo ancora al cinema, non è proprio per fuggire le apparenze, e per credere agli squali, alle auto impazzite, agli extraterrestri e alle comete che solcano i cieli degli avventurieri di Spielbelg?

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INDIANA JONES is not so much the continuation of THE PREDATORS OF THE LOST ARK as its repetition. It is not so much the return of the Great Adventure, as the advertisement says, as the return within the identical scheme of certain constants in the cinema of the author of THE SHARK and E.T. The adventure, as we remember it from the traditional examples on which Spielberg also draws, does not necessarily have to abdicate a relative verisimilitude, a reference, even a fictional one, with reality. In INDIANA JONES, on the contrary, everything is sacrificed to the triumph of the imaginary. Every event is amplified, every genre cliché is expanded into an exaggerated perspective. Snakes, scorpions, bats, crocodiles and other animals, perhaps innocent but guilty only of being part of our catalogue of terror ghosts, are exposed in spades. As with the heroes of youthful comic strips, nothing is impossible: jumping out of a plummeting plane onto an inflatable dinghy, skidding with the same on ice to the ravine, plummeting but into the river, ending up swallowed by the waterfall. But with the reassuring conviction that all will end well. The frenzied rhythm of improbability dictates a single logic, a single structure on which the film's raison d'être is built: that of figurative invention. Not only do we know exactly the outline of a story or situation. But, exactly as in the art of 'd'après', our pleasure is doubled by the fact that we know the meaning of a representation: for this better enables us to appreciate the improvisation, the author's imagination within an arcane situation.

Spielberg takes up exactly the same dramatic scheme as in THE PREDATORS. Not only that: even the same gags. Like the most famous one, that of the pistol shot against the two scimitar-wielding villains. Spielberg has the impudence to reenact exactly the same situation. Harrison Ford reaches for his holster, but it is simply empty.... Freed from the constraint of having to make a story or characters believable, Spielberg's cinema can then unfold in all its freedom, and the spectator can enjoy searching for certain constants or simply enjoy a cascade of inventions that, apart from a brief pause about two-thirds of the way through the film, intertwine at an astonishing pace. Convulsive cinema, which never dwells on the details of a landscape or a psychology, which never seeks the rigour of a composition. But which loads each shot with a thousand details, trying to make the most of every figurative solution that the situation suggests.

Cinema of innocence, of childish memory, of adolescent ghosts: the Spielbergian hero is more and more a little boy. Which looks at Indiana Jones as a primitive hero, reinforcing his role as an archetype. And that leads to the almost holographic finale, with all the children freed, the protagonists embracing, the triumph of the playful and the wonderful. INDIANA JONES can only be seen as an act of unbridled improvisation, in which the pleasure and art of directorial dynamics becomes the sole reason for an itinerary. Seen otherwise, INDIANA JONES is something unbearably improbable, steeped in Reaganesque arrogance: with the Indians imbeciles and perverts, the wise and liberating whites, the shrieking women just as silly as the natives, and the obviously virile and domineering men. But, if we still go to the cinema, isn't it precisely to escape appearances, and to believe in the sharks, crazy cars, extraterrestrials and comets that ply the skies of Spielbelg's adventurers?

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