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IL PAESE DOVE SOGNANO LE FORMICHE VERDI
(WO DIE GRÜNEN AMEISEN TRÄUMEN)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 22 novembre 1984
 
di Werner Herzog, con Bruce Spence, Wandjuk Marika, Roy Marika, Norman Kaye (Germania, 1984)
 
Il cinema di Werner Herzog è quello del sogno: il sogno nel quale l'uomo trova il proprio appagamento, ma anche la propria follia. Cinema come fuga dalla realtà: le storie di Herzog iniziano tutte da un esame attento, naturalistico, della realtà. E si lasciano poi invadere, poco a poco, dal dubbio, dallo scacco. Per terminare in un delirio astratto e visionario: la zattera di Aguirre in balia della corrente, la teleferica impazzita di La ballata di Stroszek.

Il cinema di Herzog, quello di Kaspar Hauser, era grande poiché ogni immagine traduceva questa degenerazione della realtà (da quella fisica, in senso figurativo, a quella spirituale della corruzione del processo che tramanda la civiltà) e la traduceva in una evocazione visionaria e poetica. Con il passare degli anni questo potere incantatore è venuto meno. Sopraffatto, forse, dagli imperativi di un quotidiano che sempre di più esige l'inserimento in una finalità reale per non dire pragmatica.

Fitzcarraldo, in questo senso, ha segnato il punto più alto della megalomania del regista tedesco: una follia che gli permetteva di passare due anni nel]a giungla per far trasportare dagli indigeni un battello in cima ad una collina. Ma che gli impediva ormai di filmare questa impresa sconsiderata con l'occhio del sognatore.

Come Aguirre e Stroszek, anche Herzog sembrava aver compiuto la parabola assurda che segnava il destino dei propri personaggi: quella di veder distrutta la purezza, la libertà, la fede (oltre naturalmente i valori tipici del progresso umano, la scienza, la morale, la religione, la cultura) nel momento di giungere alla meta.

In questo senso, Il paese dove sognano le formiche verdi segna un ritorno alle origini del processo artistico di Herzog. E in questo senso, malgrado gli evidenti limiti, il film costituisce un significativo progresso rispetto a Fitzcarraldo. Girato fra gli aborigeni australiani, con un budget modesto e degli intenti semplici e diretti, Il paese dove sognano le formiche verdi rappresenta, per il proprio autore, un altrettanto salutare bagno di modestia.

Come tutto il cinema di Herzog, esso disegna lo scontro fra due culture, due culture che si osservano senza comprendersi, senza possibilità d'integrazione. Da una parte gli aborigeni che difendono il proprio territorio, il mondo sotterraneo di quelle formiche verdi che, risvegliate dal loro riposo, causerebbero la fine dell'umanità. Dall'altra quella di una tipica multinazionale mineraria, con la tecnologia e le esigenze dello sfruttamento moderno del sottosuolo. Ma, conoscendo Herzog, sappiamo che il film non farà né un discorso ecologico, né politico o anche semplicemente critico. Gli indigeni difendono la loro cultura e i loro miti, ma non sono visti col tradizionale pietismo: in seguito ad un processo (perso) chiederanno, inaspettatamente, un enorme aereo cargo a titolo di risarcimento. E l'enorme formica dipinta di verde, con a bordo due indigeni illuminati, scomparirà dietro alle montagne. Ricominciando, nel mitico paese delle formiche, un discorso vecchio di quarantamila anni.

In questo film che ripropone i vecchi temi herzogiani in una forma finalmente meditata e a misura d'uomo, non tutto funziona ancora alla perfezione: il discorso è prevedibile, la progressione drammatica incerta,, la simbologia e le invenzioni stesse un poco scontate. Ma l'inizio del film, con il paesaggio lunare che Herzog riprende con quel suo modo inconfondibile di guardare agli elementi naturali, lo splendido finale con il bambino indigeno disperato, antico, accanto al transistor che tragicamente trasmette la finale dei mondiali di calcio, appartengono al cinema di razza.

Un cinema che ha bisogno della presenza insostituibile dell'autore di KASPAR HAUSER.


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