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CINQUE GIORNI, UN'ESTATE
(FIVE DAYS ONE SUMMER)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 24 novembre 1983
 
di Fred Zinnemann, con Sean Connery, Betsy Brantley, Laurent Wilson (Stati Uniti, 1983)
 
Sarà soltanto una coincidenza, ma il direttore della fotografia di quest'ultimo film del settantenne Zinnemann è Giuseppe Rotunno. E Rotunno, uno dei più celebri fra gli operatori italiani firmava trent'anni or sono uno dei capolavori di Roberto Rossellini VIAGGIO IN ITALIA. Ora succede che CINQUE GIORNI UN'ESTATE ricorda molto VIAGGIO IN ITALIA: anche se è stato girato in Engadina, e l'altro alle falde del Vesuvio. Come in quel capolavoro, e come in STROMBOLI, si parla di una coppia in crisi. E come in quella celebre lezione di Rossellini, che così grande importanza doveva avere sull'evoluzione del cinema la crisi dei personaggi è innescata dallo sguardo che il cineasta pone sull'ambiente che fa da sfondo alla vicenda. La storia (tratta da una novella di Kay Boyle) è tipica della letteratura psicologica anglosassone degli anni Trenta e anche, se vogliamo, del romanzo popolare: uno scozzese ormai maturo parte in Svizzera per fare dell'alpinismo. Lo accompagna la giovane nipote, e amante. La grande differenza d'età fra i due non può non porre degli interrogativi alla ragazza, oltre che incuriosire gli altri ospiti dell'alberghetto di montagna. Nell'incontro con una giovane guida locale (ma non nel senso che lo spettatore s'immagina a prima vista...), e con gli avvenimenti che si legano all'ambiente autentico della montagna, tutto quanto di ambiguo c'era nella propria situazione sarà rivelato alla giovane. Come in Rossellini è lo sfondo che diventa l'elemento rivelatore, catalizzatore dei sentimenti e delle reazioni dei personaggi. Una costante, questa dialettica fra i significati interni dei personaggi e quelli estetici dell'ambiente, che contraddistingue tutto il cinema più valido. Certo, il cinema di Zinnemann è nient'altro di quello che lo definiranno i suoi detrattori accademico. E con ciò? All'interno di un gioco di campi e controcampi tradizionali, di lente panoramiche esplicative (alle quali non è per nulla spiacevole, e ancor meno disdicevole, abbandonarsi piacevolmente...) lo stile di Zinnemann trova qui uno dei suoi momenti più alti. Sicuramente più alto che non nel recente e assai ben accolto JULIA, sicuramente più ispirato che non nei troppo celebri, abili e pomposi MEZZOGIORNO DI FUOCO o DA QUI ALL'ETERNITA'. Zinnemann si è forse ricordato di quanto ammirava Flaherty e faceva del documentarismo: la sua montagna (che è sempre stata una delle cose più difficili da filmare) è perfetta. Colta nell'assoluto delle sue dimensioni (i suoni, i silenzi...) con un'intuizione e un'autenticità che rimarranno nella memoria. Lo stesso pudore, la stessa sensibilità che usa con la natura Zinnemann la riserva ai suoi personaggi. Ed ecco, proprio grazie alla misura ed alla discrezione con la quale egli ha impostato la sceneggiatura e lo stile delle riprese, ecco che questi suoi cliché di comportamento, questi suoi modelli certamente un po' datati, finiscono con l'assumere una credibilità e un'emozione vera. All'interno di una cornice tradizionale s'iscrivono allora delle reazioni che non sono mai risapute o accademiche: la ragazza non inizia una love-story con la guida seducente, i due uomini non diventano rivali e ancor meno lottano fra di loro durante le loro ascensioni, e quello che muore alla fine non è colui che ci si aspettava... Il classicismo della visione di Zinnemann non solo si traduce in conformismo dei significati: mi serve, col proprio equilibrio, a rilanciare e ad affinare questi significati. Oltre alla delicatezza del ritratto psicologico e alla potenza della descrizione nelle sequenze di alta montagna, due momenti basterebbero a far ricordare il film. Quella del ritrovamento del cadavere intatto del fidanzato scomparso decenni prima, e che la vecchia montanara viene a riconoscere in una lunga processione fra i ghiacciai. E la lunga rincorsa della giovane protagonista verso il solo superstite (ma quale dei due?) che ritorna in lontananza verso il rifugio alpino. In questi momenti di grande tensione emotiva lo spettatore ritrova tutto il piacere di un cinema di qualità, di riflessione e di creazione del quale aveva perso il ricordo. Questo spettatore, che incontro per la strada e che mi dice che ormai non si fanno più i film di una volta, non dovrebbe perdersi FIVE DAYS ONE SUMMER...

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