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DANTON Film con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggio
  Stampa questa scheda Data della recensione: 17 novembre 1983
 
di Andrzej Wajda, con Gérard Depardieu, Woiciech Pszoniak, Patrice Chereau (Polonia - Francia, 1982)
 
Un polacco (e ancore più un nome carismatico come quello di Wajda) che s'attacchi ad una Rivoluzione (e così emblematica come quella francese...) non è certo cosa che passi sotto silenzio, nemmeno in un'epoca inflazionata da messaggi e informazioni come la nostra. E, infatti, il DANTON di Wajda ha sollevato più di una voce. A cominciare da quella degli storici. Wajda, è bene ricordarlo, non ha voluto certamente fornire un'ennesima illustrazione di un avvenimento così profondamente analizzato. Ma dire la sua, invece, su qualcosa mediato nei nostri tempi: in questo caso un celebre lavoro teatrale contemporaneo, L'Affare Danton di Stanislawa Przybyszewska. Ecco perché, nel film, lo scontro si riduce a quello fra due uomini: Robespierre (dalla parte del quale stava l'autrice della pièce) e Danton. Lo scontro fra questi due uomini corrisponde esattamente a ciò che viviamo in questo momento. Il mondo dell'Occidente è Danton; quello dell'Est, Robespierre", ha detto Wajda.

C'era da dissentire, e puntualmente sono stati in molti a dissentire. Danton (che Depardieu investe di tutta la sua dilagante e sensuale ingordigia interpretativa) è la vita, il popolo, la passione. L'altro Robespierre (che interpreta l'ascetico e interiorizzato Pszoniak, purtroppo doppiato in modo osceno), il principio astratto, il calcolo lontano dall'uomo, il cinismo politico. Danton, sottolinea Wajda con allusioni così ripetute da finire con l'apparire un tantino grossolane è Walesa. E, Robespierre, inutile cercare troppo distante, il militare al potere, la degenerazione della rivoluzione, lo stalinismo. Ora, ha detto qualche storico, le cose stavano proprio all'opposto. Danton, sbracato e bon viveur, lo era soltanto nell'immaginazione di qualche francese, che ha sempre avuto un debole per questo tipo di personaggio. Ma in verità, il popolo di allora sapeva benissimo che ogni anno di rivoluzione in più significava per Danton decuplicare la propria fortuna. E la sua indulgenza, la sua opposizione al Terrore nasceva in buona parte dal desiderio di non inimicarsi gli aristocratici i borghesi arricchiti e gli usurai. Wajda, dicono questi storici ma anche alcuni socio-politologi, non soltanto ha travisato la verità storica (il che avrebbe anche un'importanza relativa, perché il suo DANTON non è certamente un film "storico"); ma ha fatto della pura e semplice demagogia. Giocando sull'elemento più ovvio dell'operazione, l'identificazione dello spettatore con la forza straripante del personaggio Depardieu, ha ridotto una delle equazioni ideologiche della Storia più delicate a qualcosa di piuttosto sommario: rivoluzione eguale terrore e sopraffazione. Quindi: diffidate delle rivoluzioni.

Diciamo da parte nostra che una lettura puramente cinematografica dell'opera da un lato conferma l'ambiguità dell'autore, dall'altro evidenzia certi pregi che sarebbe ingiusto ignorare. Centrato il film sulla presenza di due grandi attori (che finiscono con l'accentuare il carattere di bipolarità ideologica di fondo) Wajda ha volutamente relegato il resto dell'intervento cinematografico in un discreto anonimato. I movimenti del popolo sullo sfondo sono fin troppo sfumati, gli interventi dell'elemento ambientale tenuti sottotono: uno stile che si ritrova a metà strada fra quello dell'estetica del cinema muto (che contraddistingue l'inizio del film, per esempio) e quello teatrale, che regge lo scontro dialettico fra le diverse fazioni, e che giustamente sottolinea l'origine teatrale della sceneggiatura. L'ambiguità viene dall'imperfetta fusione di questi elementi stilistici: e il risultato è che certi significati finiscono con lo scomparire del tutto. Un esempio per tutti: il processo a Danton e la sua eliminazione, così come raccontati nel film, sono semplicemente immotivati... Per piegare la storia ai propri fini, per tracciare ad ogni costo certi paralleli col presente che gli premevano, Wajda si è ritrovato con troppi aspetti contrastanti.

Che Wajda sia un grande cineasta non lo scopriamo oggi, e anche in Danton il suo genio arriva talvolta a sfondare. Non tanto in certi personaggi visionari, che al contrario sono malriusciti e forzati (il bambino che recita le leggi, la madre col neonato al processo) ma nella volontà del regista di smitizzare la Storia ed i suoi protagonisti, di restituire questi personaggi al loro ruolo di uomini stanchi, agitati, febbrili. In poche parole, veri. La grande trovata, la sola riuscita del film forse, sta in questa volontà di avvicinarsi alla vera umanità, alla fisicità dei protagonisti. Lontano dalle alchimie, spesso forzate, dei paralleli storici e delle dimostrazioni ideologiche. L'autenticità di DANTON sta nella raucedine di Depardieu: di Danton che si affida alla sola arma che gli rimane per farsi udire dal popolo e per farsi ricordare dal tempo, la propria voce. E quando questa voce materialmente, scompare, anche Depardieu/Danton esce dalla storia. Quella del film e quella con la maiuscola.


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