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IL PIANETA AZZURRO Film con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggio
  Stampa questa scheda Data della recensione: 20 gennaio 1983
 
di Franco Piavoli (Italia, 1982)
L'ecologia va di moda, e questo film mi sembra rispecchiare alla lettera le intenzioni che il vocabolario affida a quella scienza: "branca della biologia che studia i rapporti fra gli organismi viventi e l'ambiente circostante". Esprimendo delle riserve su un argomento che si vende molto bene, sono perfettamente conscio di attirarmi scarse simpatie: molto più facile sarebbe infatti parlar bene (come hanno fatto in tanti, dalla sua apparizione all'ultima Mostra di Venezia in poi) del Pianeta azzurro. Non fosse che per il fatto che l'autore del film (pittore, ex-cine dilettante passato ora al cinema in grande, quello in 35 millimetri) è sicuramente persona meritevole di grande simpatia: uno che ha passato mesi, se non anni, a spiare la natura nei suoi sussulti più intimi, lungo l'avvicendarsi delle stagioni, l'occhio incollato al mirino della cinepresa. E la cuffia in testa, a captare i suoni più segreti: fin dalle prime immagini del film (la crosta di ghiaccio che ricopre il torrente e che, poco alla volta, inizia a sgretolarsi, quindi a sciogliersi ai primi calori che annunciano la primavera) comprendiamo quale sia la strada seguita da Piavoli. Immagini quasi fisse, neutre: ed i suoni (quelli che spesso il cinema dimentica, così come il nostro orecchio rintronato dal traffico e dalla televisione) intenti a suggerire le espressioni più evidenti e allusive. Cinema sensuale, quindi. Intento a ridarci il respiro immediato di una natura, ripresa con piacere quasi edonistico. E volontà di astrazione. Dopo un buon quarto d'ora di scricchiolii del ghiaccio che si scioglie e della primavera che si annuncia, ecco farsi largo la stilizzazione. Le immagini si fanno sfuocate, le luci i riflessi si allontanano sempre di più da una descrizione naturalistica per ricomporsi in un gioco informale di luci, di segni, di colori, di suoni. Il torrente iniziale è ormai un ricordo: Sullo schermo sfilano per molti minuti questi segnetti astratti che rincorrono una loro poesia compositiva. Si torna al naturalismo, a quello ingigantito dall'obiettivo macro. Due corpi, umani stavolta, fanno all'amore sul prato: narici spalancate nelle quali la cinepresa sembra ingoiarsi, labbroni come deserti sterminati, sistemi pelosi sfiorati con ingrandimenti da microscopio. Ma non certo astratti, come i segnetti di prima, anzi. Altro cambio di atmosfera: ecco i trattori, le ruspe che sconvolgano la terra. Il lavoro dell'uomo, la sua fatica quotidiana nell'avvicinarsi alla terra? Le lunghe panoramiche sulle messi, sul grano dorato disteso al sole sembrano indicarlo. Ma no, nemmeno: di nuovo motori, fari che di notte squarciano l'oscurità, mostri meccanici che attraversano lo schermo da destra a sinistra, poi da sinistra a destra. Ed infine venendoci incontro. E, per terminare, motociclisti che sfrecciano dietro agli alberi, sempre di notte. A questo punto, e siamo a metà film, uno opta per l'ennesima interpretazione: l'uomo, e il cosiddetto progresso, che violenta la natura. I cingoli, i denti delle ruspe ripresi drammaticamente a controluce come i denti dello squalo, non possono che significare minacce latenti, violenze e distruzioni. Prossima sequenza: il contadino e la natura. Il casolare al tramonto, la sedia sull'uscio a spiare le stelle che compaiono in cielo nel coro dei grilli e animali notturni. Nostalgia di un mondo che dava del tu alla natura, di un'armonia cosmica dimenticata a profitto dei transistor. Quello, insomma, che rimproveravano a Olmi coloro che non avevano amato L'ALBERO DEGLI ZOCCOLI. E ancora, prima di ritornare all'autunno e ai ghiacci dai quali si era iniziato: alcune scenette di vita intima. Il sonno del contadino, ripreso a lungo. Una vecchia coppia che discute a letto (insonnia, alba rurale?), il pianto di una donna (maternità riferentesi alla copula della prima parte o semplice incubo?), un litigio attorno al recinto di un campo. Che IL PIANETA AZZURRO nasca grazie ad un infinito amore per la natura lo si capisce subito. Ma a cosa voglia condurci tutto questo amore, a me è parso assai più oscuro. C'è una sola e vera costante nel film, ed è purtroppo assai discutibile: la ricerca della suggestione fotografica. Torrenti che scorrono, insetti o umani che amoreggiano, macchine che producono o distruggono, individui che lavorano, osservano o dormono, la prima preoccupazione di Piavoli sembra essere quella di riprendere tutto in modo suggestivo. Che le foto siano riuscite o meno (diciamo che lo sono al cinquanta per cento) ha poca importanza: il guaio è che tutto questo compiacimento espressivo finisce per annullare la carica di sincerità e di entusiasmo di questo amico del mondo vegetale ed animale. Un albero in mezzo a un prato non è soltanto un albero in mezzo a un prato: a seconda del modo di filmarlo (con la luce dietro, o davanti, con i colori saturi o stemperati, con lo spazio vuoto in primo piano o sullo sfondo, nel centro dell'inquadratura o tutto spostato da una parte) esso assumerà un significato diverso. L'autore di Il pianeta azzurro ha filmato tutto, immagini e rumori, con indubbia emozione estetica. Ma anche con altrettanto indubbia confusione di linguaggio: ed il risultato finisce col situarsi all'opposto di dove voleva arrivare. Complicare quanto di più ordinato esista al mondo: la natura, ed il modo per l'uomo di avvicinarsi alla natura.

   Il film in Internet (Google)

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