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IL MIO AMICO IVAN LAPSCIN
(MOJ DRUG IVAN LAPSIN)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 10 novembre 1988
 
di Aleksej German, con Andrej Boltnev, Nina Ruslanova, Andrej Mironov (Unione Sovietica, 1982)
 
Aleksej German
"La ricostruzione (che traduce il termine ormai celebre e corrente di "perestrojka"), e la la trasparenza ("glasnost") voluta dal nuovo corso gorbacioviano si decifrano in modo contraddittorio ed estremamente affascinante nelle varie opere proposte dalla puntuale rassegna luganese, voluta da Guglielmo Volonterio.

Questo non solo perché in un film si sovrappone la poetica di un artista alle sue preoccupazioni morali, esistenziali o politiche, rendendolo così opera da interpretare. Ma anche, più banalmente, poiché i film presentati risalgono in parte agli anni precedenti il nuovo corso (si tratta delle ormai proverbiali opere "scongelate" di German, di Sokurov, di Kandelaki, o le prime di Konchalovski). Ed in parte ad un periodo appena trascorso, che già gode, o eventualmente intuisce dell'avvento della nuova era liberatrice. Così, una lettura, in chiave furbescamente smaliziata, delle ragioni opportunisticamente politiche che portarono al congelamento di certe opere non è sempre evidente. Ai burocrati del regime non erano certo simpatici gli eroi negativi che abitano molte delle opere degli autori citati. Ma per valutarne il concetto di sovversione occorre una conoscenza di quegli anni assai più incisiva di quella offerta dalle nostre sporadiche frequentazioni cinematografiche: e viene sicuramente istintivo meravigliarsi, come fa Tullio Kezich (a proposito del capolavoro giovanile di Konchalovski, STORIA DI ASJA KLIACINA, CHE AMÒ E NON SI SPOSO ', sequestrato nel l967) che "un'immagine così calda e rassicurante della realtà sovietica sia stata considerata una testimonianza a rischio e censurata".

Più utile e spesso commovente, constatare come molte di queste opere siano guidate da un'imperiosa mano espressiva. Ed è proprio ciò che deve aver scatenato la repressione dei detentori delle certezze dogmatiche ed oscurantiste: la sensazione, magari soltanto intuita, che tre le pieghe della poesia e della riflessione si nascondano i germogli delle nozioni di libertà e di progresso. In questo senso esemplari appaiono le opere di German e Sokurov. IL MIO AMICO IVAN LAPSCIN (che una giuria miope oltre che scarsamente informata premiò soltanto con l'argento al Festival di Locarno del l986) è ovviamente tutt'altra cosa di una rievocazione celebrativa e nostalgica del 1935 (anche se parte, un po' come PAPA È IN VIAGGIO D'AFFARI di Kusturica, dai ricordi d'infanzia di un ragazzino).

Il l935 segna l'inizio delle purghe ordinate da Stalin. Ma anche la fine di un periodo post-rivoluzionario e in certo modo romantico, durante il quale almeno due ideologie potevano ancora coabitare: due progetti di società, uno basato sulla speranza, fors'anche utopica, l'altro su quello scetticismo, su quella disillusione che degenera nelle varie forme di repressione. Ivan Lapchine, un poliziotto incaricato di sgominare delle bande criminali, è al cuore di questo dilemma: se da un lato subisce ancora il fascino dell'illusione rivoluzionaria, dall'altro diventa progressivamente lo strumento dello stato poliziesco. Tutto ciò è tradotto con sottile e straordinaria perizia dalla mano del regista. Certo, non con facilità: ma con una sovrapposizione di livelli di lettura (forse obbligatoria per mascherare le intenzioni, forse semplicemente un po' dimostrativa) che vengono a costituire un tessuto espressivo di straordinaria densità.

Punteggiato dagli squilli ironici delle fanfare militari (un elemento che ritroviamo in altre opere dell'autore), l'ambiente estremamente significativo assiste al drammatico processo di mutazione: la cittadina quasi ancora cecoviana, con i suoi piccoli giardini, le orchestrine, la stazione, le abitazioni minute, si muta in cornice d'intrighi e delazioni, livida come l'alba che precede gli arresti clandestini . Così come la storia degli individui, come quella del poliziotto Lapscin deluso e respinto in amore, si fa storia di tutte le genti.

Sferzata da illuminazioni violente, la fotografia verdognola (raramente il colore, riservato alle poche scene ottimiste, al periodo contemporaneo alla narrazione) trasforma il grigiore del quotidiano nel regno incerto e crudele delle supposizioni: mentre le cinepresa errante, inquieta ed incessante, sembra affannarsi a cogliere sui visi dei protagonisti le ragioni delle deviazioni storiche."


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