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HECATE Film con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggio
  Stampa questa scheda Data della recensione: 10 marzo 1983
 
di Daniel Schmid, con Lauren Hutton, Bernard Giraudeau (Svizzera - Francia, 1982)
 
Divinità greca rappresentata con tre corpi e tre teste, Hécate era una dea considerata all'inizio come dispensatrice di talenti, ricchezze e vittorie. Ma che si muta ben presto in un simbolo di doppiezza malefica, covo di fantasmi oscuri, perversioni magiche. Così la donna che è al centro dell'ultimo film di Daniel Schmid, il regista svizzero che più di ogni altro ha saputo in passato trasmetterci il senso del magico.

Abita in Marocco, negli anni trenta. Affascinante e misteriosa come di dovere, seduce e condivide i mitici ozi africani con un giovane console francese. Che sempre di più consuma i fasti delle notti edonistiche, e sempre meno le poltrone dell'ufficio consolare. I due sono splendidi, nell'accezione comune: lei è Lauren Hutton, celebre indossatrice americana quarantenne dalla bellezza altera. Lui Bernard Giraudeau, erede di Delon nel cuore della ragazzine francesi alla ricerca del bello tenebroso...

Cosa succede nel romanzo di Paul Morand che ha sedotto Daniel Schmid? Che dopo i tempi "della felicità, non ancora quelli dell'amore" lei gli sfugge: in sogni, in godimenti, dai quali egli si sente escluso. Ed ecco il sospetto: Clotilde, proprio come Hécate, mangiatrice di uomini, rincorre nel segreto delle notti i bambini, per placare i propri desideri. Per il nostro giovane console l'estasi africana è finita: inizierà una lunga stagione di tormenti, di privazioni, poi d'involuzione fisica e morale. Nel tentativo, ovviamente inutile, di chiarire un dubbio ambiguo, malefico e, dopo tutto, forse infondato.

Il cinema di Schmid si situa, professionalmente, molto in alto: l'ambientazione e sensibilissima, la decorazione, l'illuminazione, la presa dei suoni, le tecniche di recitazione sono impeccabili. Eppure, quella discesa negli inferni del dubbio e del malessere, quell'impossibile rincorsa all'identità della Donna (o alla conoscenza, in breve del profondo psicologico del prossimo) non avviene. Lauren Hutton rimane quella che è, un magnifico e non significante profilo di indossatrice: e, di conseguenza, la disperazione del giovane amante ben poco ci commuove. Lo stile del regista finisce col diventare puramente decorativo: come quelle ombre che si disegnano inutilmente sul bianco dei muri mentre i protagonisti si avvinghiano accademicamente.

Con tutto ciò Hécate non è un film gelido e calligrafico. Perlomeno fino all'ultima parte (che culmina nell'inutile e incomprensibile incontro in Siberia col marito della donna) ogni immagine del film ci rivela, con una trasparenza a tratti limpidissima, le preoccupazioni dell'autore.

Se nel raccontare Hécate il cineasta si perde, nel confessare sé stesso Daniel Schmid raggiunge l'emozione. E attraverso l'impotenza stessa del film nel tradurre l'impossibile ricerca di verità del giovane diplomatico, ritroviamo le preoccupazioni dell'autore: quel desiderio di aprirsi, di parlare della propria angoscia nei confronti di un mistero indecifrabile proprio perché non cifrato, quel rifugiarsi nel grembo femminile assimilato alla chiave della conoscenza, finisce col trasformare Hecate in una confessione piena di umanità. E, visto in questo senso, il film vive di una sua vita autonoma.


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