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FITZCARRALDO
(FITZCARRALDO)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 10 marzo 1983
 
di Werner Herzog, con Klaus Kinski, Claudia Cardinale (Germania, 1982)
 

L'avvenimento straordinario di FITZCARRALDO, l'ultimo film dell'ex enfant terrible e ormai consacrato autore del cinema tedesco (40 anni, un capolavoro, KASPAR HAUSER, e almeno due grandi film, AGUIRRE e la BALLATA DI STROSZEK... ) è noto da tempo a tutti: nel cuore dell'Amazzonia tra indiani allo stato semiselvaggio e difficoltà infernali, una spedizione che ricerca il caucciù trasporta un battello da un fiume ad un altro, issándolo sopra una montagna. Ma lo straordinario in FITZCARRALDO sta nel fatto che il battello viene trasportato davvero: e in questo "davvero" si può riassumere tutto il film.

La meraviglia di FITZCARRALDO sta in un incredibile sforzo di ripresa cinematografica; ma non nella ripresa del meraviglioso. Ecco perché FITZCARRALDO è un tipico film di Herzog, ma è ben lontano dai suoi capolavori. Tipico perché il sogno, l'impresa ai limiti dell'impossibile. sono delle condizioni di cui l'artista Herzog necessita per stimolare la propria creatività. E tipico perché quello delle illusioni, del sogno infantile, puro che viene distrutto dall'incontro con la cosiddetta civiltà, con il progresso, con la cultura, è il tema di tutto il cinema di Herzog. Ma in FITZCARRALDO le difficoltà materiali, lo sforzo fisico, tecnico che fanno parte di ogni ripresa cinematografica, ma che in quelle di Herzog fanno parte integrante del disegno intellettuale, sembrano per la prima volta avere il sopravvento sull'ispirazione poetica. Il sogno è tutto nella carta la follia è presente nell'impresa, ma è totalmente assente dall'immagine. Eppure nella vicenda del film erano presenti tutte le premesse: questo personaggio che Klaus Kinski interpreta con la consueta tensione, questo avventuriero (o idealista, o poeta, o fanciullone) che vuole portare Caruso nella giungla, costruire un teatro lirico fra i selvaggi, far soldi col caucciù per realizzare tutto questo, oltre ad una ferrovia che attraversi le Ande, è il tipico eroe herzogiano. È Aguirre che parte alla ricerca dell'EIdorado, è Kaspar Hauser che si avventura nell'ignoto della conoscenza, è Stroszek che conquista l'America. Ma perché quella ricerca dell'impossibile, quella crudele ed al tempo stesso pietosa rincorsa all'assoluto che trasformavano l'avventura di Aguirre o la cronaca di Kaspar Hauser in poesia pura si traducono qui in immagini talvolta spettacolari, ma mai trascendentali? Perché questo battello assurdo che risale il fiume, tipico momento di iniziazione (si pensi ad APOCALYPSE NOW), si traduce in qualcosa di gradevole alla vista ma mai di commovente? Ai tamburi minacciosi che giungono dall'immensa cortina di verde FITZCARRALDO risponde con l'Arte, la Cultura, la Civiltà. Sale sul tetto del battello e sul vecchio fonografo a tromba mette un disco di Caruso: la musica di Verdi risuona sul fiume e sulla foresta infinita.

E un'idea che da sola deve aver spinto Herzog a fare il film, (e che film: tre anni di tribolazioni, un'intera squadra che abbandona le condizioni proibitive delle riprese, problemi nei contatti con gli indigeni, attori come Nicholson e Mick Jagger che rinunciano al ruolo... ) proprio come quella dell'exploit di far passare un battello al disopra di una montagna. Eppure, anche qui, la poesia rimane nelle intenzioni: la scena è preparata con tale laboriosa prevedibilità che, quando giunge, l'effetto si perde quasi del tutto.

FITZCARRALDO non è un film, ma un film su delle riprese cinematografiche: non c'è emozione nello spettatore quando assiste alle vicissitudini nella giungla. Semmai il pensiero costante che, dietro agli sforzi di quegli indigeni che trascinano a forza di braccia il battello, ci sono dei cineasti che filmano quello sforzo (e, probabilmente, un argano nascosto che facilita il tutto. E quando il battello è preda dei vortici fatali delle rapide il nostro pensiero va al fatto che 'questi vortici non devono essere tanto fatali, se un operatore in coperta può riprendere in tutta tranquillità l'accaduto.

E come se oggi Herzog fosse ormai vittima dei propri sogni, alla stessa maniera di quei suoi meravigliosi personaggi che inseguono le chimere e la fede. Di fronte all'enormità "fisica" del sogno FITZCARRALDO è come se Herzog avesse perso quella forza indispensabile al poeta. Quella di distaccarsi dall'oggetto osservato per ridarci, nell'osservazione, quel senso del meraviglioso che è solo delle cose dello spirito, e mai della materia.


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